«Porto in scena le storie vere dei briganti»

Il regista Santagata con la sua nuova pièce all’ex Pini: «Viaggio alla scoperta di un periodo buio per l’Italia»

Matteo Failla

A partire dagli anni ’80 è divenuto uno degli interpreti più rappresentativi della ricerca teatrale italiana, ma da ben due anni non calca le scene dei teatri milanesi. Per la prossima stagione tuttavia si prepara a tornare con tre spettacoli, anche nei teatri milanesi. Ma coloro che sono rimasti a casa non dovranno aspettare così tanto: Alfonso Santagata ha scelto il palco dell’ex Pini - che ospita la rassegna Da Vicino nessuno è normale – per l’anteprima del suo nuovo spettacolo Il sole del brigante (da oggi a giovedì). Perché quest’incursione nel mondo dei briganti? «È da quando sono piccolo che sento narrare storie di briganti – spiega Alfonso Santagata - per questo ho deciso di addentrarmi in questo mondo complesso, dove bene e male convivono. Ho scelto di occuparmi dei tre confini tra Basilicata, Campania e Puglia, perché hanno rappresentato per i briganti un triangolo di facile sconfinamento: solo nel periodo che va dal 1860 al 1866 su questo triangolo vi erano migliaia di briganti. Poi ho voluto riportare alla luce un pezzo di storia: su 30 milioni di italiani ne morirono un milione. I gendarmi piemontesi dettero alla luce una folle legge Pica, grazie alla quale veniva trucidato chiunque avesse avuto rapporti coi briganti. Un periodo buio per l’Italia. E questo spettacolo è anche un modo per allontanare il brigantaggio dal consumismo alla Pro Loco, visto che in alcuni paesi si organizzano passeggiate o banchetti dei briganti».
Lo spettacolo cerca di creare una «sintesi del Brigante», una figura che possa racchiuderli tutti. Con che caratteristiche?
«In primo luogo essere brigante voleva dire impersonificare un gesto di rivolta, ma per alcuni era un modo per sopravvivere. Ho analizzato racconti, testimonianze, ma soprattutto documenti giuridici. Ho scoperto però che alcuni avevano anche un atteggiamento narcisistico: ho trovato foto di briganti, e ai tempi un tale privilegio era concesso solo ai nobili. Ciò che li distingueva dalle moderne organizzazioni criminali era mettersi in gioco in prima persona, con volti e nomi: nulla di loro rimaneva».
Dai suoi lavori affiora l’amore per i suoi attori, coi quali instaura un feeling particolare. In questo caso è lei ad interpretare il suo testo: è riuscito ad amarsi?
«Non mi sento innamorato di me stesso; lo sono piuttosto del teatro. Non mi piace quando devo espormi in prima persona, preferisco lavorare con gli attori. In questo spettacolo mi sento troppo protagonista; tutte le sere salgo sul palco e vivo quella condanna di chi si dona al pubblico e poi deve rimettersi in piedi».


So che non ama dare definizioni del suo teatro, quindi le chiederò di darne una: teatro di ricerca appare riduttivo...
«Diciamo che il mio è teatro di differenza e non di tendenza: sono un artista fuori dal tempo».

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