Per poter divorziare Garibaldi ottenne la legge ad personam

Oggi la presentazione di documenti inediti sulla vita del generale. Che chiese aiuto a sua maestà per liberarsi della moglie ripudiata

Per poter divorziare Garibaldi ottenne la legge ad personam

L’eroe dei due volti. Da un lato il “conquistador” senza macchia e senza paura, strenuo combattente per la libertà dei popoli; dall’altro l’uomo tormentato, incapace di gestire le sue debolezze, che pretende dal re un trattamento di favore per aggiustare le turbolente vicende coniugali. Come quando riuscì a ottenere dai giudici di Roma la sentenza che avrebbe decretato l’annullamento delle nozze con la fedifraga consorte, la marchesa Giuseppina, nonostante queste fossero state celebrate secondo l’ordinamento asburgico, e dunque sotto un’altra giurisdizione. Il documento inedito che getta luci e ombre sulla figura di Giuseppe Garibaldi, tra i padri fondatori dell’Unità d’Italia, verrà presentato oggi, al Museo Manzoniano di Milano, dalla fondazione Labus-Pullè presieduta dall’avvocato Pierpaolo Cassarà, nell’ambito del progetto «L’Esprit del Risorgimento - Celebrazioni per il 150° anniversario dell’unificazione nazionale».

L’aneddoto giudiziario risale agli anni dell’esilio a Caprera, quando ormai il generale mostrava anche nel fisico i segni di una vita costellata da imprese belliche e da travagli familiari cominciati all’indomani della morte di Anita con lo sventurato matrimonio, all’età di 52 anni, con una nobile comasca appena diciottenne, Giuseppina Raimondi. Un’unione naufragata il giorno stesso delle nozze, avvenute il 24 gennaio 1860 a Fino Mornasco, nella cappella privata della di lei famiglia, allorché Garibaldi apprese da una lettera anonima dei ripetuti tradimenti della sposa, incinta già sull’altare del tenente bergamasco Luigi Caroli. Un affronto intollerabile per l’orgoglio del condottiero, che reagì con veemenza alla pubblica umiliazione ripudiando la moglie adultera. Non poteva certo immaginare che quando, vent’anni dopo, avrebbe chiesto l’annullamento delle nozze, la legislazione fosse nel frattempo cambiata, e l’ordinamento del nuovo stato italiano non consentisse di intervenire sui rapporti regolati dalla precedente giurisdizione (ovvero quella asburgica del Lombardo-Veneto, in base alla quale era stato contratto il matrimonio).

La richiesta fu dunque rigettata dal Tribunale di Roma, e al povero Garibaldi non restò che appellarsi al «buon cuore» del re.
Il seguito è scritto nella sentenza datata 14 gennaio 1880, in cui «in nome di sua maestà Umberto Primo», la Corte di Roma dichiarava nulla l’unione tra «Garibaldi Generale Giuseppe e Raimondi Marchesa Giuseppina». Lasciando libero il condottiero di sposarsi con Francesca Armosino (conosciuta a Caprera quattordici anni prima) e di legittimare i due figli, Clelia e Manlio, nati dalla nuova relazione. Siamo davanti al primo caso di «legge ad personam» dello Stato unitario. Il sovrano infatti concesse un «patentino regio», pare come ringraziamento al generale per aver rinunciato a remunerazioni, titoli e quant’altro.

L’episodio non è che un tassello della travagliata vita amorosa del capo dei Mille (che si dice abbia avuto più donne che soldati al suo comando). Ad arricchire il mosaico, è un altro documento privato, conservato negli archivi della fondazione e mai pubblicato prima. Una lettera di ringraziamento scritta al termine di un soggiorno a Civitavecchia all’indirizzo di un misterioso benefattore, che lo aveva ospitato con la sua consorte, la «signora Lucchesi».

La quale, secondo le indiscrezioni dell’epoca, avrebbe avuto un ruolo prezioso negli anni più difficili del generale, afflitto dagli acciacchi e bisognoso di terapie al punto da essere costretto a reggersi sulle stampelle.

«Grazie alle miracolose acque termali e alle cure gentili da voi ricevute in questa comoda e graziosa villa, ho sostituito alle mie grucce, che vi lascio per ricordo, il vostro bastone», scriveva Garibaldi il 10 agosto 1875, forse a suggello di un amore mai consumato.

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