Premier don Abbondio

Credo d’aver capito lo stato d’animo di Romano Prodi mentre pronunciava ieri al Senato, con burocratica aridità e quasi con svogliatezza, il suo discorso. Il Presidente del Consiglio era ossessionato dal timore che una parola, una frase, un gesto potessero offrire un appiglio non all’opposizione di centrodestra, ostile per ruolo, ma alla componente d’estrema sinistra della sua cosiddetta coalizione. Leggeva a testa bassa; intento a non sgarrare neppure di un millimetro da un testo che immagino sia stato oggetto di ponzamenti e riponzamenti nelle stanze di Palazzo Chigi.
Il risultato non ha tradito le premesse. Dichiarazioni che stando ai mezzi di comunicazione erano d’importanza determinante per le sorti d’Italia hanno avuto l’impronta della vacuità, della genericità, della inconsistenza. C’era da immaginarselo: e sarei disposto a non farne una colpa terribile a Prodi, che non ha la certezza di scampare, nel voto di oggi, al fuoco nemico, e che non ha nemmeno la certezza di scampare al fuoco amico.
Ma un passaggio del suo intervento - per la precisione quello sull’Afghanistan - s’è posto al disotto delle aspettative più pessimiste. Nessuno s’aspettava ragionevolmente, da chi ospita nel Consiglio dei ministri i comunisti di varia confessione, una presa di posizione filoamericana. Pur affermando di non voler sfuggire alla questione della presenza militare italiana in Afghanistan Prodi è di fatto sfuggito, cavandosela con un ipocrita richiamo a «sensibilità diverse» e con il solito ritornello buonista d’una missione che è portatrice «di una cultura di dialogo e di aiuto, non di confronto o scontro». Queste formule applicate a una realtà che purtroppo non è di minuetti leziosi ma di sangue e di morte sarebbero state in ogni caso inadeguate. Evitasse pure, Prodi, i toni risoluti, ma che su un nodo essenziale della nostra politica estera si limitasse al bla-bla-bla arcobaleno era in ogni caso troppo sfacciatamente politico, e troppo patetico.
Ma c’è stato di peggio. Il sorvolare di Prodi sul terrore e sul dolore è diventato a mio avviso intollerabile nel giorno in cui l’attacco a una base Usa in Afghanistan ha fatto molte vittime e creato apprensioni per l’incolumità del vicepresidente Cheney. Un episodio di grande gravità e di grande e allarmante significato, nel Paese dove si trovano i ragazzi italiani. D’accordo, il discorso era scritto, e Prodi non voleva distaccarsene neppure d’una virgola, anche le virgole possono innervosire i Giordano e i Diliberto. Ma una parola di solidarietà per il presidente americano non poteva trovarla, il professore? E prendendo spunto dalla strage di ieri, non poteva anche accennare ai pericoli dai quali sono insidiati, in una situazione tutt’altro che consolidata e alla vigilia d’una possibile offensiva talebana, i soldati della missione?
Macché, nemmeno un accenno. Prodi ha preferito abbandonarsi all’autocompiacimento per le prospettive d’una conferenza di pace che è di là da venire: se ne discuterà, se se ne discuterà, in futuro. Le autobomba degli attacchi suicidi sono invece il presente.

Confesso di non avere alcuna particolare simpatia per Dick Cheney, personaggio che considero poco gradevole. Ma nel momento in cui i talebani vogliono farlo fuori, alla loro maniera assassina, sto con Cheney, e mi complimento per lo scampato pericolo. Avrebbe dovuto farlo, con ben altra autorevolezza, Romano Prodi.

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