Il presidente d’Israele incriminato per stupro

Il caso aperto da Aleph, una dipendente che ha descritto nei particolari le violenze sessuali subite nel palazzo del potere

Il presidente d’Israele incriminato per stupro

Lui, il presidente, fino a ieri gridava alla caccia alle streghe, si dipingeva come un nuovo Dreyfus, invocava un Elemire Zola pronto a salvarlo. Ma il nuovo Zola, l’impavido difensore capace di gridare l’innocenza del sessantenne Moshe Katsav, non è mai arrivato. Sono arrivate solo le accuse. Pesanti come macigni, devastanti come raffiche di mitraglia, vergognose come rosari d’infamia. Stupro, molestie sessuali, abuso d’ufficio, ostruzione della giustizia, interesse privato, l’abominio è tutto lì, in quell’elenco di reati minuziosamente distillati nell’atto di incriminazione firmato dal procuratore generale Menachem Mazuz.
Ora l’unico in grado di metter fine a questo balletto dell’ignominia, l’unico in grado di salvare dal fango una carica il cui l’unico prestigio deriva dall’onore è lui, Moshe Katsav. Lo farà? Non lo farà? Israele neppure si chiede più se sia veramente colpevole. Vuole solo sapere se rispetterà la parola data. Se risparmierà altra vergogna alle istituzioni, allo Stato, a quella presidenza una tempo offerta ad Albert Einstein. Lui lo ha promesso. Due mesi fa ha fatto sapere alla Suprema corte di giustizia di esser pronto ad autosospendersi solo dopo un’incriminazione formale. Ora l’atto c’è, formale e anche impietoso, ma lui tace. Alcuni suoi amici dicono che aspetterà ancora, che non si dimetterà, che spera di provare la propria innocenza. Le televisioni ci montano sopra dibattiti e illazioni. David Libai, il suo avvocato ripete che oggi il presidente Moshe Katsav, romperà il silenzio, onorerà l’impegno. Se non lo fa lui, non lo può fare nessuno.
Un atto formale di impeachment votato da due terzi della Knesset sarà possibile solo dopo la deposizione del presidente e la trasformazione dell’incriminazione in formale richiesta di processo. Troppo tardi per salvare dall’imbarazzo il paese. Troppo tardi perché il primo formale atto d’incriminazione contro un presidente nella storia d’Israele arriva mentre premier e ministro della Difesa sono ridotti a tremolanti foglie d’autunno. Mentre lo stesso procuratore generale Mazuz indaga sulle privatizzazioni bancarie promosse dal primo ministro Ehud Olmert. Mentre nella memoria di tutti vaga fresca, pruriginosa e ancora in attesa di verdetto, la storia del ministro della Giustizia Haim Ramon travolto da un altro sospetto di molestie sessuali. Per affondare Ramon bastò un bacio galeotto a un’impiegata smorfiosa. Stavolta è assai peggio. Lo si diceva, ma tanto davvero non ci si aspettava.
«Le accuse non terranno - sussurravano i boatos della politica, se non s’è sospeso una ragione pur ci sarà, polizia e inquirenti devono aver tirato la corda, il procuratore deve aver esagerato... ». Invece nell’incriminazione di quel procuratore generale già bollato dal presidente come il suo personale McCarthy, c’è tutto e di più. Ci sono innanzitutto lo stupro e le molestie sessuali ad «Aleph», l’impiegata del ministero del Turismo che parlò per prima. Ci sono altri, svariati casi, più o meno turpi, di molestie e assalti sessuali a tre dipendenti dell’ufficio della presidenza. C’è l’abuso d’ufficio di una suprema autorità pronta a minacciare i testimoni per metter la sordina alle sue vittime. C’è l’avidità di un satrapo pronto ad attingere ai fondi della presidenza per distribuire omaggi e regalie.
Aleph aprì il caso. Era la fine di luglio e il presidente l’aveva denunciata alla polizia per ricatto. Lei non si tenne dentro nulla. Raccontò il suo inferno nell’alcova indecente del potere, descrisse nei particolari l’ignominia di uno stupro sfacciato, arrogante, ripetuto per due volte. Era successo tra il ’98 e il ’99, prima che lo chiamassero presidente, quando Moshev Katsav era l’icona di una carriera specchiata, il simbolo una vita esemplare, l’ebreo di Persia arrivato alla politica dopo la fuga dalla miseria e dalle persecuzioni, l’integerrimo marito padre di cinque figli, il ministro del Turismo con una reputazione inattaccabile. Doveva ripulire le macchie di rapace corruzione lasciate dal suo predecessore, da quel Ezer Weizmann costretto nel 2000 alle dimissioni. Katsav invece ha messo il fango nel ventilatore. Ad accenderlo ci hanno pensato Aleph e le altre sei donne messesi in fila davanti ai cancelli della procura generale per sputare le loro accuse. Solo i racconti di quattro di loro sono stati ritenuti validi per l’incriminazione, ma sono più che sufficienti, più che infamanti.

Nei loro verbali ci sono le ricostruzioni di quegli incontri sfacciati dietro le porte chiuse di un palazzo sordo e cieco. Lui, dicono, chiedeva, pretendeva, prendeva. Poi se ne andava. Senza una parola. Come molti sperano riesca finalmente a fare anche quest’oggi.

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