Con la prevenzione 80 per cento di infarti in meno

Progressi, non miracoli. Le malattie cardiovascolari rappresentano ancora, in Italia e nel mondo, la prima causa di morte. Il professor Augusto Lacchè, che dirige l’Unità operativa di cardiologia dell’ospedale romano San Camillo-Forlanini, dà questa spiegazione: «Si fa poca prevenzione. I medici di base, superimpegnati, non vengono sollecitati ad eseguire con regolarità gli accertamenti necessari. Bisogna stimolarli, responsabilizzarli. Noi lo facciamo spesso». Questo rapporto continuo col «territorio» è uno dei vanti del professor Lacchè, che da tre anni dirige una struttura d’eccellenza (dieci cardiologi, dieci infermieri professionali) nota ormai a livello internazionale.
Prevenzione come? Ecco le sue risposte: «Il soggetto ultracinquantenne, apparentemente sano, deve sottoporsi - almeno una volta l’anno - a questi esami clinici: misurazione della pressione arteriosa, ricerca dei lipidi e in particolare del colesterolo nel sangue, glicemia, azotemia, uricemia. Una sola risposta dubbia deve allarmare il medico di famiglia, inducendolo a misurare i rischi e ad approntare i relativi rimedi».
Non sono zelanti, in questo senso, né i medici né i pazienti. Questi ultimi, poi, «preparano» molte cardiopatie con uno stile di vita sbagliato: fumando, nutrendosi in modo sbagliato, evitando ogni tipo di attività fisica («adoperano l’automobile anche per fare cento o duecento metri»).
Tuttavia, aggiunge il professore con un certo compiacimento, le curve della mortalità cardiaca in Italia tendono a ridursi. Resta l’amara considerazione - confortata da uno studio clinico del 2004 - che una prevenzione rigorosa ridurrebbe gli infarti non del 10 ma dell’80 per cento e ciò cambierebbe non solo il pianeta-salute ma anche la spesa sanitaria.
Oltre che alla prevenzione, la fama dell’Unità operativa di cardiologia del San Camillo-Forlanini è legata alla riabilitazione cardiovascolare, che riguarda pazienti post-infarto, post-bypass, post-trapianto. «Speriamo d’avere presto una ventina di posti letto», dice il professor Lacchè «oggi funziona soltanto un day hospital che ci permette risultati eccellenti, anche nei pazienti scompensati, che diventano sempre più numerosi».
Dovendo fare un bilancio, professore, lei si dichiara ottimista o pessimista?
«Decisamente ottimista, sia sul piano personale che su quello generale. Mi fa piacere ricordare che la prima Divisione italiana di cardiologia è nata proprio nell’ospedale in cui oggi lavoro, il San Camillo, per merito del professor Vittorio Puddu e che oggi la cardiologia del nostro Paese è ai primissimi posti nel mondo. A Roma, a Milano, a Padova, a Pavia («dove ho avuto come maestro il professor Tavazzi») esistono strutture eccellenti, capaci di risolvere i casi più difficili.
I grandi progressi compiuti sia sul piano diagnostico che su quello terapeutico (basti pensare non solo ai nuovi farmaci ma anche a interventi risolutivi come trombolisi e angioplastica) ci permettono di guardare al futuro con grande fiducia. Ma...».
Il «ma» riguarda (repetita iuvant) la necessità di fare prevenzione a livello nazionale.

Deve diventare sempre più stretto, sostiene Augusto Lacchè, il rapporto con i medici che operano sul territorio; e deve diventare più pressante la loro opera di convinzione verso i pazienti riluttanti. Ridurre dell’80 per cento gli infarti non è un’ipotesi (allettante) ma un’autentica certezza.

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