PRIGIONIERI DELL’ESTREMISMO

Ad aprire il vaso di Pandora è stato Fausto Bertinotti, nel momento in cui ha detto: «Perfetto, bravo Romano, questo sì che è un discorso di sinistra-centro». Il momento in cui perfino i giornali sponsor del tentativo unionista hanno capito che era il caso di smettere di insistere sul riformismo del nuovo governo. Il momento in cui hanno perso vigore le voci dei Tommaso Padoa-Schioppa, dei Giuliano Amato, dei Massimo D'Alema, dei Francesco Rutelli o delle Emma Bonino. Il momento in cui si sono liberati gli istinti antagonisti, con gli slogan sessantottini rinverditi dal movimentismo no-global.
Ecco dunque Paolo Cento, sottosegretario all'Economia, che propone di colpire le rendite e di pensare che «la crescita economica non è di per sé un bene». Ecco, a ruota, Patrizia Sentinelli, viceministro per la cooperazione di Rifondazione comunista, rilanciare la richiesta del ritiro della missione in Afghanistan e invocare «il dovere morale» di sbloccare gli aiuti all'Autorità palestinese, nonostante Hamas. Ecco il neo-ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi annunciare subito, senza neanche aspettare il decreto sul ripristino del suo dicastero, che il ponte sullo Stretto di Messina non si farà. Ecco Paolo Ferrero, titolare della Solidarietà sociale, prospettare la chiusura dei Cpt, l'abrogazione delle leggi sull'immigrazione e sulla droga. Ecco la rivolta contro la sfilata del 2 giugno nel nome del pacifismo. E l'elenco può continuare a lungo, ad esempio con la contestazione giustizialista nei confronti di Clemente Mastella o con il girotondo dipietrista alla voce «italiani all'estero». Non è un governo, è un corteo di grisaglie quello guidato da Romano Prodi, è un atto liberatorio compiuto dalla cultura che, per tanti anni, durante la Prima Repubblica, corrispondeva alla sinistra extraparlamentare.
Questo è il marchio impresso dall'Unione, ai suoi primi passi nelle istituzioni. Forse avrebbe potuto essere evitato, se il presidente del Consiglio si fosse presentato, da subito, dalla notte fra il 10 e l'11 aprile, dicendo qualcosa di moderato e di riformista e poi se si fosse mosso sentendo il peso della divisione dell'opinione pubblica in due componenti elettoralmente equivalenti. Invece ha attizzato il fuoco, ha cavalcato lo spirito di rivincita, non ha resistito alla spinta abrogazionista degli ultimi cinque anni di attività legislativa e, introducendo l'argomento della «svolta etica» e quindi della «superiorità della sinistra», ha picconato gli argini lasciando straripare la fiumana dell'estremismo.
Così la maggioranza parlamentare appare prigioniera e succube di quella che è sempre stata una minoranza. Anziani senatori a vita, che sanno bene che la Repubblica nacque da una durissima guerra vinta, erano già adulti in quei giorni, hanno pronunciato il loro «sì» a coloro che vogliono fare dell'anniversario del 2 giugno una caricatura. Eminenti professori di riformismo hanno dato il loro consenso a coloro che ritengono che l'Italia non abbia bisogno di innovazione. Maestri di democrazia, che hanno dato il meglio di sé nei cinque anni di governo della Casa delle libertà, non si sono scomposti di fronte all'omissione di Prodi sui pericoli a cui è esposta la giovane democrazia irachena, attaccata dal terrorismo.

Reduci della Prima Repubblica, delle vecchie trincee contro l'estremismo, si sono trovati a loro agio accanto ai protagonisti degli «espropri proletari» e dell'antagonismo «senza se e senza ma». Sono stati tutti risucchiati nel corteo, in nome del potere che cancella le differenze.

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