Washington - Due «morti», resurrezioni e un giallo. Anche se è fondato il sospetto che uno dei trapassi fosse solo apparente e se l’«assassino» sarà molto difficile da trovare. Dalla polvere sono risaliti sugli altari John McCain e, più clamorosamente, Hillary Clinton. Solo che il primo era stato dato per spacciato alcuni mesi fa, per la seconda il certificato di decesso era stato stilato poche ore prima, a urne quasi già aperte nel New Hampshire per una delle edizioni più «drammatiche» della primaria che da ormai mezzo secolo inaugura le campagne presidenziali americane. Chi legge i risultati senza essere stato immerso nella frenesia degli ultimi due giorni non ci troverà, dopo tutto, nulla di sorprendente. John McCain, riemerso da una semiclandestinità di mesi, era già in buona posizione quando tutti i candidati si sono trasferiti dall’Iowa nel New Hampshire per cui - non va dimenticato - avevano appena quattro giorni a disposizione. E le previsioni di una settimana fa in campo democratico assomigliavano come gocce d’acqua al risultato definitivo: un testa a testa fra Hillary Clinton e Barack Obama.
Come si prevedeva, ma nel frattempo era parso succedere il finimondo. Nel gergo elettorale americano c’è un termine difficile da tradurre, «momentum», che indica più o meno la rincorsa che un evento favorevole dà o sembra dare per qualche tempo a un candidato. Il «momentum» l’aveva Obama, sottolineato dalla rivelazione della sua grande e nobile oratoria, ma soprattutto dalle brutte sorprese, dalle battute di arresto, dalle gaffe che per un paio di giorni hanno costellato la campagna di Hillary. Prima dell’ultimo dibattito i due erano nei sondaggi alla pari o quasi, poi le quotazioni di Obama hanno preso a salire di ora in ora, quelle della Clinton a scendere. Entrambi i movimenti apparivano accelerati e inarrestabili. Al momento in cui la gente del New Hampshire ha cominciato ad andare alle urne, li hanno accompagnati risultati nuovissimi dei sondaggi e una domanda diretta: «Lei per chi intende votare?». Si chiamano «entrance polls» e sono leciti, mentre sono proibiti gli «exit polls», quelli in cui si chiede «Lei per chi ha votato?». E i dati si confortavano a vicenda: ora per ora, a urne chiuse, il vantaggio di Obama si trasfigurava in plebiscito. Concorde: 39 per cento contro 30 per cento sanciva la Cnn, 41 a 28, incalzava la Gallup. E anche la Fox fissava a Hillary il tetto del 28 per cento.
Poi sono cominciati gli scrutini e gli istituti di sondaggio sono ammutoliti per quanto riguarda la contesa in casa democratica, mentre sui teleschermi spuntavano i primi, radi dati autentici. E fin dalla prima scheda tirata fuori Hillary era in testa. I commentatori hanno cercato di nascondere la propria sorpresa e ammantato il silenzio rovesciando tutte le loro parole sulla gara fra i repubblicani, in cui tutte le previsioni erano minutamente confermate. Mitt Romney aveva già pronunciato il rituale riconoscimento di sconfitta,
John McCain scandito il bollettino della sua vittoria, sull’altro fronte si continuava a dire «gara aperta» anche quando il vantaggio della Clinton toccava il suo massimo, 40 a 35. La resa degli «indovini» è venuta quando i risultati erano proprio completi e, in sé, banali: 41 a 39, tradotti fra l’altro in egual numero di delegati da mandare alla convenzione nazionale del partito. Infine parla Obama, la voce stretta da quello che pare un groppo di emozione ma si capisce poi che è solamente un raffreddore. Parla Hillary, contenuta nel lessico della sua esultanza, ma con una gioia un po’ vendicativa che le sprizza dagli occhi. Solo molto dopo affiora l’ipotesi «gialla» del perché le previsioni siano state così sbagliate in misura che non si vedeva dalle famose elezioni presidenziali del 1948, quando Harry Truman potè sventolare l’edizione straordinaria del quotidiano di Chicago in cui si annunciava la sua sconfitta.
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