Primarie, States in marcia: l'obiettivo è la Casa Bianca

Parte oggi nell'Iowa la maratona delle primarie che si concluderà alla fine dell’estate

Primarie, States in marcia: 
l'obiettivo è la Casa Bianca

Des Moines - Non si è mai speso tanto in una «campagna elettorale» che a andar bene porterà al voto 200mila persone e che solo una pigra saggezza convenzionale continua a definire il barometro d’America. Mai tanti candidati, forse, si sono affacciati così spesso sul paesaggio umano quasi vuoto dell’Iowa. E mai, probabilmente, la contrapposizione delle idee e delle proposte è stata così scarna e le idee nuove così latitanti. Non è colpa dei cittadini di Des Moines e dintorni: anch’essi esprimono, nel loro piccolo, gli umori generali dell’America al momento del via della terza campagna elettorale del secolo e della più lunga della storia, assurdamente anticipate nei tempi, che hanno obbligato candidati, elettori e finanziatori a mettere quasi tutte le carte in tavola nell’autunno del 2007 per scegliere un presidente che entrerà in carica nel gennaio 2009. In un certo senso, dunque, i giochi sono fatti. In un altro senso le decisioni non sono mai state così lontane, perché mancano, semplicemente, figure e programmi sufficientemente convincenti.
Se il resto sarà come il prologo, vivremo soprattutto polemiche e scontri personali, molto più che confronti di idee e di programmi.

Entrambi i partiti sembrano avere esaurito la loro forza di immaginazione, seppure per motivi diversi: i repubblicani perché in otto anni di Bush (sei dei quali spalleggiato da una maggioranza in Congresso) hanno realizzato quasi tutti gli obiettivi cui maggiormente tenevano e adesso sono a corto di idee, oltre che di fiato. E i democratici di idee continuano a non averne e ad oscillare fra un rituale «no» alla linea della Casa Bianca e un più o meno tacito accodarsi ad essa, come è venuto in luce soprattutto da quando il partito di opposizione ha riconquistato Senato e Camera e in un anno non ha né realizzato né proposto niente di importante.

I due politici più impopolari d’America sono oggi, non a caso, coloro che incarnano rispettivamente il potere esecutivo e quello legislativo, George Bush e Nancy Pelosi. Quest’ultima è addirittura scomparsa dalle cronache dopo un debutto ambizioso e baldanzoso, il primo alla ribalta c’è rimasto e ci rimarrà fino alla sera dell’ultimo giorno di potere, perché se la fiducia in lui si è erosa, la sua capacità decisionale è intatta. Mentre i candidati alla sua successione si azzuffano fra le praterie dell’Iowa e i monti del New Hampshire, Bush si prepara a un viaggio nel cuore del Medio Oriente, Israele e Palestina, per propugnare un suo piano definito nuovo, ma che di novità nei contiene ben poche e non per sua colpa. Sfiorerà questa volta l’Irak, il campo di battaglia che è curiosamente sparito da un paio di mesi dai discorsi e dalla memoria degli americani. Un motivo c’è: negli ultimi mesi le cose sono andate meglio o almeno meno peggio. La strategia di Petraeus ha, per una volta, dato i frutti promessi, pur nell’ambiguità perenne di quella guerra. Il numero di caduti americani nel 2007 è stato il più alto dall’inizio del conflitto, ma quasi nessuno ne parla perché la vera notizia è che negli ultimi mesi esso è drasticamente diminuito. Ma si parla poco anche di questo, forse per prudenza di fronte alla eventualità sempre possibile di una «ricaduta» che i dati degli ultimi giorni suggeriscono. Tutto questo cambia ben poco, in un senso o nell’altro, il giudizio sulla guerra e sul presidente: l’opinione si è ormai cristallizzata in quattro anni abbondanti: nessuno è realmente convinto che l’America stia vincendo, quasi nessuno pensa seriamente che si debba o si possa riportare i soldati a casa.

Analogamente anche sui temi economici e sociali il dibattito è talmente sfumato da non stimolare scelte vere e proprie. Se la Casa Bianca è giù nei sondaggi, il Congresso ne esce ancora peggio. Si indovina un vuoto nel momento in cui gli americani cominciano ad andare alle urne. Lo confermano un sondaggio e un’iniziativa. La lista delle «cento persone più influenti del mondo», pubblicata dal settimanale Time, non include George Bush.

E a New York, città di Hillary Clinton e di Rudy Giuliani, si sono riuniti i propugnatori della candidatura di un terzo concittadino: il sindaco Michael Bloomberg, ex democratico che ora ha lasciato anche i repubblicani.

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