IL PROBLEMA DEL FATTORE P

Ora si scopre che Romano Prodi non sa comunicare con l'opinione pubblica. Sono passati i bei tempi in cui si elogiava la bonarietà del Professore, la semplicità del suo linguaggio, la capacità di trasmettere fiducia e sicurezza, i bei tempi del «tutti al gazebo». Sono iniziati quelli difficili in cui si cerca di capire perché in pochi mesi, e con un ritmo che ha pochi precedenti, è caduto l'indice di popolarità del presidente del Consiglio. Molti giornali amici o tifosi non hanno evitato il problema, ieri è stata la volta dell'Unità, e sono giunti alla comune conclusione che il difetto del leader dell'Unione consiste nel non saper spiegare la sua politica.
È un'interpretazione che si può discutere. I critici e gli oppositori del centrosinistra sono autorizzati a pensare che in realtà si tratta del risultato naturale di un'azione di governo il cui significato è ben chiaro alla maggioranza degli italiani. Anche sorridendo, anche con parole più semplici e convincenti, è difficile trascinare consensi su atti come l'occupazione delle cariche istituzionali, come il decreto Bersani, come il caso Telecom, come l'aumento generalizzato della pressione fiscale. Si è capito bene il senso di frasi come «andare in Parlamento? roba da matti» o come «al Papa pensino le sue guardie».
Ma, al di là delle spiegazioni che ciascuno vuole dare, quel che colpisce è la sorprendente concentrazione su Romano Prodi di critiche, di osservazioni e di contestazioni proprio in quell'area politica che ne condivide e sostiene l'impresa. Sono in discussione proprio quei «titoli atti a governare al meglio per i prossimi cinque anni» che erano stati elencati dal direttore del Corriere della sera alla vigilia del voto di aprile. Un benevolo galateo limita la critica alla capacità di comunicazione, cioè ad un argomento soft, facile da maneggiare in qualsiasi congiuntura negativa. Se l'immagine è questa, la sostanza però è un po' più cruda.
Il presidente del Consiglio è finito in un isolamento che non ha nulla di splendido. I tam-tam, i dietrologi e sempre più spesso le cronache e i commenti dei giornali (anche amici) disegnano scene di insofferenza e velleità di cambi della guardia. Ce n'è in abbondanza: Prodi che non tiene conto dell'esiguità della maggioranza al Senato, Prodi che si preoccupa solo di accontentare i massimalisti, Prodi che non ascolta nessuno, Prodi che vuole trasformare i due maggiori partiti alleati nel suo unico partito, Prodi che gioca la sua rendita di posizione, Prodi che sta ancora a Palazzo Chigi perché nessuno è pronto a sostituirlo, Prodi che ha una concezione personale della coalizione fino, appunto, a quest'ultimo Prodi che non sa comunicare.
Per un paio d'anni il Professore è stata la soluzione del grande problema della sinistra, cioè come vincere nel 2006, tenendo insieme tutti, promettendo a Bertinotti la presidenza della Camera, evitando le ripicche tra Mastella e Di Pietro, sussumendo gli «ultimi giapponesi» di Pannella, garantendo il ritorno al potere di Quercia e Margherita e trincerandosi, lui, dietro le primarie. Ha compiuto in aprile la sua missione. Però non ha dimostrato di essere il leader capace di dare un senso al governo che deve guidare e alla coalizione che deve rappresentare.

L'opposizione se ne è già accorta, l'opinione pubblica ha cominciato a capirlo bene: ma, fatto nuovo, è che se ne sono accorti e l'hanno capito anche gli alleati e i giornali amici. E da soluzione del problema è così diventato il problema. Che lo fosse per l'Italia lo immaginavamo da tempo. Non era davvero immaginabile che lo diventasse così rapidamente anche nel centrosinistra.

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