Marzio G. Mian
«Gente, ora ci riprendiamo la prateria», ha detto Don Peay, capo della campagna di Donald Trump nello Utah il giorno dell'insediamento del nuovo presidente. «Prima vengono i nostri interessi e poi quelli dei burocrati di Washington o dei turisti californiani. La terra non è un museo, ma della gente che la vive». Don Peay si riferiva agli interessi dei mormoni, i discepoli della chiesa di Gesù e dei Santi degli Ultimi Giorni, che governa lo Utah da quando i pionieri-discepoli, cacciati da tutti gli stati che attraversavano verso Ovest, vi s'insediarono a metà Ottocento e il loro capo Brigham Young ne divenne primo governatore. Compagno di caccia di Dick Cheney, Ted Nugest e Donald Trump Junior e promotore della campagna per il via libera alle doppiette contro orsi e lupi, Peay aveva in tasca la promessa che il nuovo presidente avrebbe appoggiato la guerra dei mormoni contro i parchi nazionali dello Utah, visti come una rapina del governo federale ai danni delle comunità locali, pellerossa esclusi. Trump ha mantenuto la promessa, ha stracciato gli atti dei suoi predecessori (i cosiddetti Antiquities Act, istituiti da Theodore Roosevelt nel 1906 e con cui da allora sono stati iscritti 150 siti nella lista dei monumenti nazionali, Grand Canyon, Yellowstone, Statua delle Libertà ecc.) dall'Alaska all'Oregon, dal Nevada alla California, dove si è dato mano libera alle concessioni minerarie. Ma soprattutto nello Utah: qui l'Amministrazione ha autorizzato di dimezzare l'estensione di due parchi, cioè quelle aree protette di prateria e montagne cari alle tribù indiane e aggiunte da Bill Clinton e Barack Obama ad ampliare il Brars Ears Park e il Grand Straircase Park. Non è un caso che quei due milioni di acri «restituiti alla comunità» coincidano con le zone dove è provata l'esistenza di consistenti quantità di petrolio e gas.
«Le risorse sono nostre, dei nostri ranchers dei nostri cacciatori, dei nostri investitori, non degli ambientalisti di San Francisco», ha tuonato Bob Bishop, senatore repubblicano e mormone dello Utah. Sono scese in campo le aziende legate al business dell'outdoor, Patagonia in primis, sostenendo che il «turismo è l'unico petrolio della prateria». Mentre per la prima volta si sono coalizzate le cinque tribù indigene, da sempre in lotta tra loro, per difendere i centomila siti archeologici legati alla millenaria storia dei nativi in uno dei più maestosi paesaggi del West. Sta di fatto che il riconoscimento dei mormoni per l'Amministrazione Trump ha prodotto il più alto gradimento tra i gruppi religiosi, il 61 per cento contro il 48 degli evangelici.
Una lunga storia quella dell'avversione dei mormoni per le terre federali, in sintonia con l'eterna sfida tra Washington e i cow boy, nemici del Big Government che impedisce loro di pascolare le mandrie dove credono, secondo quello spirito di libertà figlio del mito della frontiera. Un confronto segnato anche recentemente da momenti di alta tensione. Come nella vicenda di Cliven Bundy, il rancher mormone che nel 2014 con la sua famiglia ha affrontato armi in pugno i federali per non pagare un milione di dollari di risarcimento per i pascoli sfruttati per vent'anni. Durante il processo Bundy e i figli sono anche andati a dar man forte ai cowboy ribelli di Marcheur Park nell'Oregon nel 2016. Il clan Bundy è stato da poco assolto per entrambe le vicende, e per i mormoni è diventato un mito. Il miglior testimonial del legame religioso tra i discendenti di Brigham Young e la terra diventata la loro Gerusalemme, l'approdo dopo l'esodo e i patimenti che a metà Ottocento portarono le carovane dei mormoni visti come l'avanguardia di una setta nemica e di poligami - a piantare le tende nell'odierna Salt Lake City. Una storia segnata da ombre rosse di sangue, che hanno sempre offuscato e avvelenato i rapporti tra i mormoni dello Utah e il resto del Paese, nonostante il loro Libro celebri l'America come la terra promessa dove Gesù tornerà, precisamente in una località del Missouri. Resta un marchio indelebile il celebre massacro di Mountain Meadows, una sorta di Torri Gemelle dell'Ottocento americano: l'11 settembre del 1857 una carovana di quaranta carri, pionieri inermi provenienti dall'Arkansas vennero trucidati sulla pista dell'Old Spanish Trail, non distante da Salt Lake City. Centoventi morti, la metà di loro donne e bambini, uccisi da una cinquantina di mormoni travestiti da indiani Paiute con l'aiuto degli stessi pellerossa. Erano gli anni in cui Young, governatore e gran sacerdote dei mormoni dello Utah, aveva instaurato la legge marziale per impedire il transito a chiunque nello stato (compresi i federali) e il divieto a vendere cibo ai pionieri. Furono alcuni delle decine di bambini rapiti a testimoniare e a far condannare a morte mandanti ed esecutori. Ne scrissero Jack London e Mark Twain, nel 2007 Christopher Cain ne trasse il film September Down.
A ricucire i rapporti tra mormoni e politica ha molto contribuito Mitt Romney, l'ex bravo governatore del Massachusetts e due volte candidato alla presidenza con i repubblicani. Anche se le sue campagne hanno rigenerato le teorie cospirative su una comunità accusata di vivere in un mondo a parte e in modo settario; nel mirino la pratica della poligamia perché lo stesso Romney è discendente di un apostolo titolare di 12 mogli. Trump, nonostante l'ostilità di Romney, ha saputo corteggiare i mormoni (una comunità che muove oltre 30 miliardi di dollari l'anno) soprattutto a casa loro, nello Utah, promettendo il recupero della terra dei parchi: così, secondo un'indagine della Pew, il 70 per cento dei mormoni ha votato per lui.
«Un fenomeno molto strano», dice Kathleen Flake, docente di studi mormonici all'Università della Virginia: «Trump è l'antitesi del conservatore secondo la morale dei mormoni, gente che celebra la frugalità, il rigore nei comportamenti pubblici, e dà gran peso al rispetto della donna, così come delle persone vulnerabili, come gli immigrati. Non a caso il movimento conservatore del Tea Party è partito dallo Utah».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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