Punti di debolezza

Quando Massimo D'Alema dice che «non mi convince un partito di cittadini e del leader» afferma più o meno chiaramente che non lo convincono né Romano Prodi né il suo progetto. È un linguaggio fin troppo esplicito. Un leader di lungo corso, cresciuto ed affermatosi in un'organizzazione politica strutturata, per di più titolare del pacchetto di maggioranza relativa della coalizione, difficilmente può accettare la sola idea della scommessa annunciata ad Orvieto. Per anni, in questa stagione del bipolarismo, non ha nascosto fastidio nei confronti della regola in virtù della quale alla Quercia spettava il basso compito di mettere i voti e gli attacchini e ad altri l'alta missione di fare il capo. E nell'autunno del '98 ha avuto anche la sua soddisfazione.
Ma in questa circostanza c'è qualcosa in più. Prodi, oltre ad aver ricevuto l'investitura delle primarie anche grazie alla generosità dei ds, oltre ad essere tornato a Palazzo Chigi, oltre a voler allontanare il rischio di un secondo ribaltone, ha esteso a dismisura la sua visione proprietaria e personale della politica. E ha chiesto in modo esplicito ai suoi alleati di rinunciare alla loro identità. Una richiesta che a D'Alema deve essere sembrata esosa ed intempestiva, oltre il galateo ed il lecito.
Esosa perché, se è vero che il presidente del Consiglio è il punto di equilibrio di una coalizione che senza di lui non si sarebbe ricomposta, è anche vero che la politica non vive di deleghe senza limiti, ma di rapporti di forza. Poi è esosa anche perché Prodi non ha mai messo mano ad un partito. Nel '96 era semplicemente «il Professore», era «il cattolico» capace di rendere competitivo uno schieramento progressista, poi è stato il presidente della Commissione europea. Ora ha assunto il modello delle primarie che l'hanno investito e ha giocato la carta del «partito aperto», definito da «una forte spinta dal basso», quindi con quel rapporto diretto tra leader e cittadini che, in altre occasioni, è stato definito dalla sinistra come populista. Siamo ai limiti dell'anti-politica.
Ma la richiesta è anche intempestiva. Per molte ragioni. Intanto il risultato elettorale di aprile ha detto che il «valore aggiunto» rappresentato da Prodi è modesto. Poi c'è l'esiguità della maggioranza parlamentare dell'Unione, che dovrebbe suggerire una certa cautela, quella che è mancata al presidente del Consiglio fin dal momento della distribuzione delle cariche istituzionali, che ha visto D'Alema nel ruolo di vittima.
Infine c'è una questione che si può definire strutturale: a lungo la prospettiva di un possibile bipartitismo - a sinistra come a destra - è apparsa come la chiave di volta del rafforzamento del bipolarismo. Ma via via sono riaffiorate identità e rendite di posizione. E la costruzione del Partito democratico, da grande ambizione politica capace di guardare al futuro affermando per la prima volta una forza della sinistra riformista, è diventata un'altra cosa. Si è ridotta ad essere essenzialmente una scommessa prodiana di potere e si è trasformata in un motivo di frizione. I ds rischiano di perdere pezzi. La Margherita vive fibrillazioni interne. Lo stesso presidente del Consiglio comincia ad aver problemi con il suo elettorato.
Non c'è una sola buona ragione perché D'Alema possa essere convinto di cedere l'intera sovranità del centrosinistra ad un altro.

E probabilmente - un po' come l'uomo del Monte che misura la maturazione degli ananas - può essere anche soddisfatto della leggerezza con cui il suo alleato-nemico ha legato il destino del Partito democratico alla sua permanenza a Palazzo Chigi, sommando in questo autunno del 2006 non due punti di forza ma due debolezze.

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