Immagina. Immagina il vecchio Josè Ortega y Gasset, filosofo spagnolo, passeggiare per le strade di Roma o di Milano, in questo quinto anno del terzo millennio. Osservalo. E pensa che un secolo fa scrisse un saggio neppure troppo lungo: La ribellione delle masse. Un saggio dove intuiva, intravedeva, il destino sociale del Novecento. Raccontava, allora, lingresso delle masse nella storia e le conseguenze di questo fiume di aspirazioni, di vita, di visibilità, di folla, di protagonisti senza nome e senza volto, di rabbia e dinquietudini, di desiderio demancipazione, che avrebbero mutato lo sguardo dellOccidente, rendendolo forse un po più cieco, ma senza dubbio più democratico. Ortega y Gasset piangeva la morte delle élites e al suo posto vedeva questo fiume di gente ed emozioni senza rotta. Sì. Forse neppure Ortega y Gasset avrebbe potuto immaginare questa Italia 2005 raccontata da Giuliano Da Empoli in Fuori controllo (Marsilio, pagg. 124, euro 9). Sottotitolo: «Tra edonismo e paura: il nostro futuro brasiliano».
Il saggio di Da Empoli è il mondo della Pop Art che esce dalla tela e si siede in poltrona. È larchiviazione, come profezia del passato, del quarto dora di celebrità di Andy Warhol. È lItalia che si specchia nella televisione e, finalmente, si rende conto che quello non è la sala degli specchi del Luna Park, e quei riflessi troppo magri o troppo grassi non sono immagini grottesche e deformi, ma siamo noi, fedeli al nostro orizzonte. La tesi di Da Empoli è qui, in questo gioco di specchi. Lui è convinto che gli specchi riflettano il vero, e non ne fa un dramma. Tu che leggi puoi anche sperare che non sia davvero così. Anche se il solo sospetto, per te, è quasi un dramma. La tesi di Da Empoli è semplice. LItalia si è brasilianizzata. È come lo sceneggiato televisivo di un romanzo di Jorge Amado, ma al posto di Gabriela (garofano e cannella) o di Dona Flor (e i suoi due mariti) ci sono eroine da soap opera, cloni di unidentità brasiliana compatibile con il piccolo schermo. Una società - come scrive Aldo Grasso - in cui più nessuno guarda la tv perché tutti vogliono farla. È la stessa fotografata da Guerzoni in un saggio, Il brutto del bello, pubblicato sul primo numero della rivista Zero (fondata e diretta da Giuliano Da Empoli): «Unélite di notabili ereditieri (le libere professioni si trasmettono per maggiorascato, grazie alla manomorta degli Ordini), rentiers di varia natura e imprenditori di seconda, terza e quarta generazione saluta lavvento di una massa informe di peones, personale di servizio, pubblico o privato che sia, con salari in stallo, status in calo e taciti veti alla mobilità verticale che si consola con la cronaca mondana, i matrimoni principeschi, le gesta dei vip, i capricci delle delfine delletere, le isole dei famosi. Oggi Marie Antoinette non lancerebbe brioches dai balconi, ma inviti per qualche comparsata dalla De Filippi o lettere di raccomandazione per la selezione delle Veline». È questa lItalia do Brasil? Sembrerebbe di sì.
Lorigine del Carnevale - per Da Empoli - è la fuga dalle utopie e dalle illusioni del 900. È la risposta allinganno del 1989, al Muro delle ideologie abbattuto e alla fine della Storia. Lultimo decennio del vecchio secolo doveva essere il capolinea e invece è stato solo uno scambio di binari. Il comportamento delle masse è simile alla gioventù boccaccesca in fuga dalla peste. Il nuovo Decamerone è la democraticizzazione dellorgia, del piacere, della carne. Lutopia istantanea del Carnevale, labbandono di ogni attesa messianica e labbandono totale del presente: qui e adesso. «È questa - scrive Da Empoli - la forza che ha distrutto i totalitarismi del XX secolo».
Il Carnevale è quindi una risposta a un male più grande. Da Empoli parla da uomo di sinistra e si rivolge agli intellettuali di sinistra. Lultimo capitolo del saggio è un appello a non rispondere al Carnevale con il saio di Savonarola. Non ci si può mostrare indulgenti con lintegralismo di Bin Laden e stigmatizzare il Carnevale. «Se luomo della strada si impadronisce dei media per esigere il suo quarto dora di celebrità, non si capisce perché un manipolo dintellettuali feriti nel proprio narcisismo dovrebbe impedirglielo». Il Carnevale è un momento di passaggio, prima o poi finirà. Se si vuole far rientrare in città lallegra brigata, la sinistra deve aprire un «canale di comunicazione con le masse carnevalizzate». Altri - aggiunge - hanno saputo farlo. Berlusconi.
Da Empoli, però, parla a interlocutori che non esistono più. Lintellettuale, da tempo, è una maschera del Carnevale. È una velina del pensiero, solo un po meno ricca e un po meno famosa. Spesso più patetica. Poi ci sono storici, romanzieri, architetti, poeti, filosofi, pittori e professionisti del sapere. Ma questi non sono intellettuali: non fanno opinione, ma arte e scienza. E ormai è unaltra cosa. La sinistra, poi, cosè? Una terra senza più radici, bruciata dal rogo dei sogni perduti. Negli ultimi decenni ha prodotto un solo fenomeno culturale nuovo: lantiberlusconismo, che ha annichilito tutto il resto. Ha messo Berlusconi al centro della storia politica di questo Paese, facendolo diventare lunico elemento cruciale: o di qua o di là. E nel nome dellantiberlusconismo ha ripudiato tutto. Per difendere i sindacati ha sacrificato i precari (e unintera generazione). Nel nome di Mani pulite ha buttato a mare il garantismo. Per timore della sconfitta ha sbeffeggiato il voto popolare, parlando della democrazia come di una maggioranza di idioti (se si perde), di ciechi miracolati (se si vince). Lantiamericanismo ha fatto il resto, fino al punto di simpatizzare con il terrore, con la teocrazia di Bin Laden, con la dittatura etnica di Saddam Hussein. Ma nel nome di quale oppio dei popoli si può scendere in piazza per sostenere le ragioni di Torquemada?
Forse il vecchio Ortega y Gasset, in questo carnevale, vede un gruppo di ombre che non balla. È quello che resta di ciò che un tempo si chiamava borghesia. Ha svenduto idee, tradizioni, vocazioni allideologia forte del momento. Ha educato, o lasciato educare, i suoi figli prima a un marxismo immaginario, fatto di libretti rossi e di yoga, di viaggi in Oriente, di salari garantiti, di «manifesta pure, sfogati, tanto poi ci pensa lamico di papà» e poi al Grande Fratello, al quarto dora di celebrità, a Miss Muretto, alla famiglia come unica forma di welfare state. Prima Che Guevara, poi le Veline. È la borghesia che si è accontentata e ha chiuso le porte, che ha visto i pezzi più fragili della sua classe perdere dignità economica e sociale. È sbarazzarsi di quelle poche cose sulle quali si basava la propria fortuna: la dignità, il sacrificio, quel rispetto un po sacro che aveva per la cultura. Questa borghesia fa rabbia e per motivi diversi rispetto al passato: non perché provinciale, non perché conformista o bacchettona, classista, perbenista o parvenue. Questa è una borghesia ignorante, in unepoca, il capitalismo dellinformazione, in cui non può permetterselo. È una borghesia che non ha pensato ai suoi figli.
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