Quando un bar diventa l'ombelico del mondo

Quando un bar diventa l'ombelico del mondo
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L'ombelico del mondo, stavolta, è il Bar 103 di Monteverde Vecchio in Roma, frequentato da una delle figure più spiazzanti della letteratura italiana. Di lui, a parte l'ipotesi che si tratti di un alto funzionario con ruoli istituzionali delicatissimi, non si rivela il nome, solo alcuni eteronimi che con frequenza allarmante si manifestano su Facebook: Doriano Fallace, Carlo Pisacane, un terzo nome che tradotto dal bulgaro significa «Colui che è stato mandato da Dio per applicare la giustizia».

Ne I taccuini della colazione (Tic edizioni, pagg. 90, euro 12), folle cronaca delle innumerevoli colazioni consumate, l'autore è indicato come Frank Solitario e per una volta si degna di scendere a patti con la carta.

Le pratiche espletate nel bar in questione hanno un passato e un futuro. Antichità a parte («I Sumeri dei sobborghi di Uruk si riunivano in Ziqqurat a un piano e mezzo dotate di bancone»; «i Greci, prima di discutere dell'Apeiron davanti a un Aperol...»), tutto inizia quando nel 1683 il frate cappuccino Marco da Aviano è inviato dal Papa a Vienna in missione diplomatica; entrato in un caffè, ordinò «una porcata random di suo schiribizzo, con aggiunta di latte montato alla vetero-asburgica». Il futuro, invece, si apre nel 2029, quando in un mondo in cui regnano le macchine i baristi dominano il pianeta, mentre «un nutrito gruppo di torrefazioni ribelli taglia la miscela arabica con i copertoni Pirelli» sforzandosi di contrastare il potere della Limbo, «il cui amministratore delegato è una caffettiera con Intelligenza Artificiale di tre piani con sede a La Paz». E il presente? Intanto, l'orario della colazione perfetta è un mistero racchiuso da sette sigilli: «nessuno lo conosce, neanche il Figlio dell'Uomo o gli angeli del cielo, ma solo il Padre». Svegliato ogni mattina alle sei dalla vicina proctologa («la prima volta che ho sentito la sua sveglia parlante declamare con dizione perfetta sono le sei-a-emme volevo entrare nell'appartamento con i reparti speciali»), Frank si trasferisce fra le piastrelle «color caciotta di Siena» del Bar 103, regolarmente iscritto al registro delle imprese di Zurigo (anche se è a Roma) e lì cerca di impossessarsi dell'unica copia del Messaggero disponibile, portata all'alba da una giornalaia «che ha i capelli della Carrà, il corpo di Don Lurio e si muove come Franco Franchi quando fa il pupo siciliano». Impresa non facile, vista la presenza di «predatori di quotidiani» fra i quali uno Scrittore Fallito che prende appunti, ignorando che «scrivere non è parlare di quello che si vede». Frank odia le famigliole al bar, che tenta di mettere in fuga (i bambini sono difficili da cacciare, non si spaventano nemmeno «quando gli spunta un clown mefistofelico con la faccia di Leo Gullotta da un tombino»); se è fortunato, riesce a sorbire il cappuccino che deve essere «sodo come il gluteo di un impala della Tanzania» e a delibare un danese cosparso di creme «lascive come una Paolina Borghese di Mergellina».

Tempestati di aforismi folgoranti: («Avere una vita regolare è ciò che mi consente di essere al meglio chi sono, ovvero nessuno»; «Dell'alcolizzato ci interessa il fegato, di Gesù Cristo la resurrezione»), nei taccuini di Frank Solitario si monta a neve la crème de la crème della satira italiana: il dileggio di Totò, gli attentati al senso comune di Petrolini, il derisorio di Manganelli: un tesoro

che lo tzunami buonista e luogo-comunista, incredibilmente, non è riuscito a disperdere. In una nuova edizione dell'Antologia dello humour nero, un redivivo Breton potrebbe assegnargli il posto lasciato libero da Savinio.

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