Stieg Larsson si era concentrato solo sugli uomini e
gli è venuta fuori una trilogia. Ma quando sono le donne a odiare le
donne, il giallo sfuma nell’horror e una trilogia non sarebbe che
l’inizio. Specie quando ad odiare le donne sono quelle donne che di
norma (e di principio) difendono le donne. Quelle che si sono talmente
riempite gli artigli col «femminismo » da scorticarne il senso,
evidentemente. Quelle che riescono ad afferrare la dignità femminile
per i capelli, sollevandola da qualsiasi fango, andandola a
ripescare come palombari in qualsiasi mare, ripulendola da
qualsiasi maldestra impronta, pur di restituirla come fosse intatta a
proprietarie che quasi se l’erano dimenticata.
Un femminismo che non teme di sporcarsi le mani
pur di riconsegnare a certe smemorate femmine la buona novella della
consapevolezza di sé. Sono quelle disposte a difendere le D’Addario, le
signorine che dopo le presunte cene ad Arcore fanno avanti e indietro
dalla Questura di Milano con le loro «borse firmate grandi come valigie,
scarpe di Manolo Blanick, occhiali giganti che costano quanto un
appartamento in affitto», perché poverine loro sono figlie
del baratro culturale, del medioevo televisivo, «dell’Italia ridotta a
bordello». Anime belle che si perdono dietro all’orco, ignare come sono
degli sgambetti che la vita ti mette di mezzo, ignare di ciò che
bisogna davvero cercare.
E allora loro, gli angeli della dignità
femminile, si rimboccano le maniche e vanno a salvarle anche lì, quelle
poverette. Anche se per farlo devono turarsi il naso e lambire il
parco di villa San Martino. Perché loro non hanno il naso rivolto troppo
in su quando si tratta di salvare una donzella in panne di amor
proprio. Sono quelle per le quali, in realtà, esistono donne di serie A
e donne di serie B, vittime degne e vittime
indegne, professioniste a schiena dritta e professioniste asservite...
Non lo ammetteranno mai, ma poi il giudizio cola dentro una
parentesi, sfugge in un inciso, quando addirittura non irrompe arrabbiato e fragoroso in un j’accuse . Si è ben visto in questi giorni con la cronista del Giornale , Anna Maria Greco, che, per un pezzo su Ilda Boccassini, è stata
perquisita a casa sua fino alle mutande, fino al computer del figlio,
fino al barattolo di crema per il contorno occhi, fino all’armadio
della figlia. E non sappiamo dire quale delle tante ispezioni sia
stata più intrusiva.
Il direttore dell’ Unità , Concita De
Gregorio, nel suo fondo di ieri esprimeva una frettolosa, altezzosa
solidarietà «alla collega»che d’altra parte lavora al Giornale e «se uno lavora al Giornale
del
resto sa come funziona, le carte o i nastri arrivano sovente
direttamente dall’editore».E siccome si sa anche che se qualcuno si
rifiuta «si rischia di finire tra i concorrenti del nuovo reality» (che
questa indecorosa democrazia sta mandando in onda), la Greco è
sostanzialmente, per le pasionarie dell’8
marzo, una causa persa. E tanto vale non perdere tempo con l’empatia
perché insomma, in fin dei conti, chi è causa del suo mal, “pianti” se stesso.
Il Fatto Quotidiano ,
con Rita Di Giovacchino, si stupiva di quanto il Giornale avesse
inveito contro la magistratura e si scervellava soprattutto per capire a
chi potesse interessare una faccenda tanto datata come quella di
Ilda... Mentre Repubblica ,
altro giornale notoriamente pieno di donne attente alle donne, si
era già occupata della vicenda a firma Liana Milella. Che il 28 gennaio
aveva steso un articolo per ipotizzare, no, pardon, magari avesse
ipotizzato, per denunciare chi avesse passato le carte sulla Boccassini
alla Greco, indicando come «colpevole» il componente del Csm, Matteo
Brigandì.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.