Quando l’Arte povera portava i cavalli in galleria

Dalle idee del ’68 nacque il mito anticonsumista e «naturalistico»

Quando l’Arte povera portava i cavalli in galleria

«Le due ultime sono state quelle degli artisti in pelliccia alla fine degli anni Sessanta e quella degli artisti in giacca e cravatta (ma camicia di stoffa jeans) della fine degli anni Settanta». Flavio Caroli, ordinario di Storia dell’arte moderna al Politecnico di Milano, parla di avanguardie. Con questo termine «avanguardie», tecnicamente molto militare, dall’Ottocento in poi si descrivono le tendenze di innovazione e rottura nelle arti figurative. In particolare si tratta in questa conversazione di quelli che sono stati i due ultimi grandi movimenti d’avanguardia: l’Arte povera e la Nuova immagine.
«Il fenomeno Arte povera esplose nel Sessantotto, intrecciandosi alle occupazioni universitarie di quegli anni. Me ne ricordo bene, giovane studente, ribelle tra aule occupate e visite alla Galleria De’ Foscheri di Bologna dove il nuovo movimento aveva il suo punto di riferimento e dove si organizzò una delle prime mostre. L’anima di questa tendenza artistica era quella stessa del movimento sessantottino: anticonsumista, contro la mercificazione dell’arte. L’opera nella sua povertà doveva autoconsumarsi, impedendosi così di divenire merce. In realtà le radici del movimento, le idee che lo animavano erano ante Sessantotto, erano già in circolazione nel 1967. E avevano anche padri nobili come Joseph Beuys che dei materiali deperibili, dell’uso del grasso animale (che si narra l’artista avesse pragmaticamente imparato a maneggiare per proteggersi dal freddo in guerra, da militare in Russia), del richiamo alla natura faceva la sigla delle sue opere. Ma al di là di Beuys, i centri che lanciarono l’Arte povera sono a Roma e a Torino. Nella capitale fu nel 1967 il pappagallo vivo di Kounellis che esposto dalla Galleria L’Attico segnò l’entrata della “natura” in un luogo canonico della pittura. Ci fu in qualche modo una sintonia con la mostra organizzata a Berna da Harald Szeeman dal titolo largamente esplicativo: “When the attitudes become forms”, quando le attitudini diventano “forme”. In quei momenti si depositarono le idee base, ma fu il Sessantotto, furono le occupazioni che costituirono il vero ambiente di riferimento del movimento culturale, divenuto presto il Gruppo dell’Arte povera, con ideologi ufficiali come Michelangelo Pistoletto e con un critico come Germano Celant che definì meglio il profilo culturale del Gruppo. Così crebbe l’avanguardia tra l’autunno del 1967 e la primavera del 1968, alimentandosi appunto dalle idee che crescevano nella società, con al centro l’idea dell’arte non consumistica».
Lei descrive un movimento con una base sostanzialmente italiana. «È fondamentale sottolineare come questa tendenza fu eminentemente italiana, divenendo solo dopo un fenomeno di successo mondiale, con l’inevitabile esito di museificazione. La teorizzazione delle basi del movimento fu esplicitamente contrapposta alla tendenza allora prevalente negli Stati Uniti, quella minimalista. Pierpaolo Calzolari, che faceva parte del primo gruppo di Arte povera, mi disse allora: “Il problema degli artisti americani è quello di formalizzare la vita, il nostro è di respirarla”».
Lei insiste su un rapporto tra movimento sociale e idee creative. «Sì, vi fu una saldatura tra idee e movimenti che diede forza alla nuova avanguardia. In Italia girava molto l’idea della rivoluzione: nell’arte si riuscì a farla. I santuari dell’Arte povera furono due: la Galleria di Gian Enzo Sperone a Torino, una specie di loft in una città particolarmente grigia in quegli anni duri, dove esponeva un gruppo di artisti tutti legati dall’elemento naturalistico del movimento: Ragazzi, Penone, Anselmo, Zorio, Mario Merz. In quel clima di naturalismo selvaggio Penone faceva la sua mano di piombo stretta intorno a un alberetto che cresceva. Anselmo si recava in brughiera con una telecamera tracciando un itinerario sempre dritto per evitare di seguire i tracciati della “civiltà”. Merz costruiva igloo per significare la sua ricerca di forme archetipe. Zorio innescava processi chimici di mutazione della materia. Tutto, come si diceva, era legato alla natura. L’altro centro del movimento fu Roma con la Galleria di Fabio Sargentini L’Attico, che presto lasciò la sua sede di piazza di Spagna, quella che aveva ospitato la mostra del papagallo di Kounellis e si trasferì in un garage sulla via Flaminia. La leadership era sempre di Kounellis. In quel periodo io abitavo a Roma, giovane studioso borsista. I pomeriggi li passavo nella biblioteca di Giuliano Briganti, la sera andavo da Rosati, lì vicino. Poi tutti alla Galleria Attico. Memorabile fu il momento in cui Kounellis portò sette, otto cavalli nella galleria. Come si disse, “Fece entrare la natura in galleria”, che divenne - anche per gli odori di paglia e merda equina - un po’ una stalla. Verso sera arrivava uno stalliere che portava gli animali a Villa Borghese, dove c’erano le stalle utilizzate anche per il Gran premio di piazza Siena. Era questa un’operazione - me ne ricordo ancora perché il particolare mi colpì - che costava centomila lire d’allora a volta. La mostra divenne leggendaria. Ero arrivato a studiare a Roma, grazie a una borsa di studio dell’Istituto nazionale di archeologia e storia dell’arte, insieme a De Dominicis che diverrà presto un protagonista anche lui dell’Arte povera: con la sua aria diabolica portò un elemento nuovo e di rottura nell’arte romana. Mi ricordo la mostra che ne segnò il successo: “I segni zodiacali”. Una mostra del 1969 in cui per il segno Gemelli De Dominicis esponeva due veri gemelli, per la Vergine una signorina che si presupponeva vergine, per il Cancro un vero scorpione e così per i Pesci».
Che rapporto c’era con le gallerie più tradizionali? «Nessuno. Incompatibilità ed estraneità. Le gallerie tipo quelle di via Margutta erano lontanissime dalla nuova tendenza che si esprimeva solo nel suo santuario. Quello dove avveniva la “rivoluzione”. Culmine del movimento fu una mostra a Bologna che si chiamava semplicemente “gennaio ’70” a registrare un puro passaggio temporaneo. Ero segretario di questa mostra che si tenne nel Museo civico, nonostante la città, comunista e perbenista, sconvolta dalla manifestazione. Mi ricordo che un artista voleva presentare all’esibizione uno ziggurat e aveva ordinato allo scopo mille metri cubi di tufo. Si era poi messo a stendere un primo piano dello ziggurat, poi un secondo: quando arrivò un architetto della direzione del museo che bloccò tutto. Le fondamenta del museo erano vuote e la costruzione poggiava su archi medioevali che sarebbero crollati sotto un altro strato di tufo. Intanto Ceroli si dannava per trovare una Cinquecento Fiat da esporre. Calzolari scriveva epitaffi su uno strato di margarina: aveva però calcolato male il calore accumulato nel museo e dopo un po’ si avvertì un fortissimo odore di rancido. Arrivò l’ufficio d’igiene. Un anziano funzionario del Pci, potente localmente, litigava con Lucio Fabbro sulla provocatoria data di morte messa sul catalogo: 1936. “Non si scherza con il 1936, è l’anno in cui sono andato in Spagna a combattere Franco”. Naturalezza e antisistema, insomma, alimentavano le provocazioni. Questa fu l’avanguardia dell’Arte povera».
Invece il movimento della Nuova immagine? «Nacque in un clima completamente diverso. Tra il 1979 e il 1980. Dominava il ritormo al privato. Erano finiti gli anni Settanta. Nell’aria c’era un ritorno alla pittura: lo chiedeva anche il mercato. Non è facile vendere certi oggetti. Erano finite le tendenze anticonsumistiche. Anzi si auspicava un nuovo consumismo. In tutti gli angoli del mondo, dall’Europa agli Stati Uniti, ricomparvero i quadri e la pittura. La prima mostra molto importante della nuova tendenza fu in un museo di Basilea, non per caso la città che ospitava la nascente strategica fiera dell’arte. Dopo partirono gli italiani. Bonito Oliva raggruppò Chia, Cucchi, Paladino, De Maria, Clemente. Dopo poco chiamò questa nuova tendenza, nota nel mondo come Nuova immagine, Transavanguardia. Con Bonito Oliva ero nella commissione della Biennale di Venezia. Pur restando in questa commissione mi impegnai nell’aprile del 1980 a organizzare una mostra del movimento Nuova immagine alla Triennale di Milano. Cui fece seguito la mostra, sempre sulla stessa linea, “Aperto ’80” alla Biennale di Venezia. Un altro centro d’iniziativa che si muoveva nella stessa direzione era quello organizzato da Renato Barilli “I nuovi nuovi”. La nuova tendenza aveva basi profonde. La critica le colse e si scatenò. Io organizzai la mostra “Il magico primario” che aveva risvolti più teorici. C’erano tra gli altri Schnabel, Salle, Tony Cragg, Baselitz, Kiefer. Gli svizzeri Martin, Diesler. E ancora Anthony Gormley, Roberto Longo. La tendenza di fondo era segnata dal ritorno all’originalità e alla magia della creazione artistica. Dall’autunno del 1979 al giugno del 1980, il mercato impazzì. Mi ricordo che nell’autunno del 1979 avevo fatto assicurare per la mostra della Triennale un’opera di Schnabel per 1500 dollari. A giugno del 1980 la stessa veniva venduta a un museo per 700mila dolari. L’avanguardia Nuova immagine non era rivoluzionaria come quella dell’Arte povera. I quadri si producevano e si vendevano. Gli anni seguenti furono segnati da lotte interne al movimento tra tedeschi, italiani, americani. E infine anche inglesi. Ma la nuova avanguardia era partita. Queste sono le due ultime avanguardie manifestatesi: anticonsumista nel ’68, neoconsumista nel ’79. Fuori di queste due grandi tendenza c’è stato solo molto impapocchiamento. Per me è stato fondamentale assistere da protagonista in due fasi completamente differenti alla manifestazione dello spirito del tempo nel campo della creatività.

Mantenendo un approccio insieme libero e critico, è stato possibile viverle e analizzarle senza eccessive contraddizioni. Come non c’erano in quei giorni in cui passavo dagli studi classici nella biblioteca di Briganti agli happening della Galleria Attico».
(12. Continua)

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