Quando le robinie circondavano via Washington

Con iniziativa degna della massima lode, le edizioni «Il Polifilo» pubblicano libri d’una «biblioteca perduta»: ossia consumata non dal fuoco come quella di Alessandria, ma dalla sovrapproduzione di un’industria culturale non abbastanza attenta ai valori del passato. Sotto questo marchio è adesso arrivato - o per meglio dire è tornato dopo un secolo esatto - il titolo «Milano che sfugge», con il sottotitolo «appunti, schizzi, istantanee, memorie d’arte della città dimenticata e moritura». Pagine scritte nel 1909 da Ugo Nebbia, un giovane critico e studioso che aveva contribuito a riordinare l’archivio della Fabbrica del Duomo e che - traggo queste notizie dalla presentazione di Gianni Mezzanotte - fu ispettore alla Soprintendenza di Milano. Il Nebbia si provò poi a dar voce a un gruppo futurista noto con il nome di «Nuove tendenze».
Personaggio interessante dunque. E interessante è anche il volumetto, corredato da suggestive fotografie e da schizzi dell’autore. Il quale descrive e anche lamenta - ma senza sentimentalismi - il sovrapporsi di una Milano delle fabbriche e della grandi costruzione agli aspetti discreti, riposti, a volte bucolici della città vecchia. Campi, orti, osterie. Un discorso nostalgico, come si vede, che viene continuamente ripetuto in parallelo con lo sviluppo della metropoli.
Nebbia racconta la strenua battaglia tra una Milano ancora circondata dalle cascine - con tracce architettoniche e pittoriche colpevolmente trascurate e inesorabilmente distrutte - e la Milano che diventava la maggior entità industriale d’Italia. Nella descrizione di Ugo Nebbia via Washington è ancora verdeggiante per una folta cortina di robinie e d’acacie, in via Moscova sorge la Manifattura Tabacchi, e l’area dove si trova ora la Stazione Centrale è estrema periferia.
Nebbia non è un laudatore immaginoso del tempo antico, non è incline a pastorellerie. Ignora la retorica che vuole allegre le lavandaie costeggianti i corsi d’acqua e sereni i villici o gli addetti agli altiforni. Ecco come tratteggia certi aspetti della zona di corso San Gottardo: «Piccole corti sgangherate che si susseguono tra un tenace aggregato d’abituri meno che modesti, androni e corridoi umidi e cupi come caverne, in fondo ai quali fa capolino qualche altro sfondo irregolare di meschine casupole e di baracche senza nome, o qualche magro orticello che intristisce al poco sole che arriva a penetrarvi...: muraglie tetre e corrose, tra le quali le ringhiere dei ballatoi mettono alla luce le infinite miserie della torbida vita che brulica là dentro; cantucci squallidi e malsani, che danno un senso d’infinita pena».
Insomma, la povertà di quando gli umili soffrivano veramente la fame. Ma insieme a tanta tristezza umana anche le nascoste gmmme artistiche d’un portale o d’un chiostro o d’una chiesetta.

Non era tutta da rimpiangere, nemmeno nel 1909, quella Milano - pur sempre operosa e generosa - di «sciuri» e di proletari. Ma aveva una indubbia caratteristica positiva.
Era una Milano milanese. Il volumetto, in edizione originale, è stato pubblicato come strenna a favore dell’Opera pia «Scuola e Famiglia».

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