Quanta solennità barbarica in un re «saggio»

C’è una solennità barbarica nei passaggi iniziali dell’avvolgente lettura del King Lear che Daniele Salvo presenta in queste sere al Globe Theatre di Villa Borghese. Una solennità che rimanda a un’idea energica del potere e della vecchiaia (come d’altronde vuole la trama stessa dell’opera) e che, proprio per questo, ben si presta poi, via via che i tragici fatti si dipanano, a mutarsi nel suo opposto. A enfatizzare cioè, per contrasto, quella progressiva frantumazione di ogni certezza, di ogni sentimento positivo, di ogni integrità emotiva, di ogni equilibrio familiare e intimo che conduce al doloroso sgomento dell’epilogo. Chi si fa principalmente carico di questo viaggio/metafora all’interno delle derive affettive e delle tensioni devastatrici generate dal rinnegamento dei «padri», è giocoforza il protagonista, che qui trova in Ugo Pagliai un interprete capace di straordinario vigore e, insieme, di arrendevole pietas. Nel solco del grande attore italiano di tradizione, egli sa trovare infatti una linea espressiva personalissima (distante da moduli straniati ma anche da tentazioni enfatiche) e - tanto più - sa restituire ogni minima piega emotiva di questo vecchio re, spogliato dei suoi beni da due delle sue tre figlie e reso pazzo dai rimorsi e dall’ingratitudine. C’è comunque da dire che la bella prova di Pagliai (presto impegnato nella preparazione di un’altra opera sulla follia, Enrico IV di Pirandello) si inserisce in un quadro dove sia il vigore interpretativo degli altri attori (quasi tutti chiamati a una recitazione sovraesposta) sia l’abbondante presenza di intarsi video e di commenti musicali/sonori riescono a creare un corpo scenico molto omogeneo. Ci si sente dentro la tragedia. Dentro il suo ventre scuro e minaccioso. Dentro le lacerazioni di padri e figli che guerreggiano tra loro, che non si comprendono a vicenda, che non sanno vedere in profondità. Ed è anzi proprio sul tema della cecità che vale la pena insistere. Non solo perché lo spettacolo di Salvo gli dà il giusto risalto (la scena dell’accecamento di Gloucester e quella della sua camminata sulle scogliere di Dover in compagnia del figlio buono sono tra le più emblematiche), ma perché in questa cecità sta il vero nodo della tragedia. Qui risiede la sua forza universale e moderna, come ben capì Beckett che da Lear trasse ispirazione per il suo Finale di partita.

E moderno, pur nell’impianto comunque classico e nel rispettoso approccio al testo, risulta pure questo bel lavoro estivo, prodotto con evidente impegno dalla Politeama di Proietti, dove si intercetta qualche lieve rimando agli spettacoli di Strehler e Ronconi. Tre ore che partono fragorose e finiscono tacite, compassionevoli, struggenti, rendendo piena ragione a un capolavoro indiscusso della drammaturgia mondiale. Fino al 3 agosto.

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