Quanti esclusi per un no al Senatùr

Chi lo tocca muore. O, se non muore, politicamente parlando s’intende, sopravvive. Rincantucciato nell’angolo di un limbo che fa dimenticare tutto e tutti. Al capo dei capi, all’Umberto Bossi leader dei duri e puri, non piace, non è mai piaciuto trovarsi davanti qualcuno che lo critica o lo contesta.
Dei rompiballe, per dirla come lui. D’altra parte basta tracciare un grafico dei suoi «gradimenti», da quando la Lega è stata fondata ad oggi, per rendersi conto che alcuni nomi e cognomi autorevoli sono spariti. Tipi da Lega, un tempo amici per la pelle del Senatùr, che sono stati leggermente epurati per aver osato dire o fare qualcosa di poco gradito.
Se partiamo dalla storia di oggi, c’è da chiedersi se Roberto Calderoli, l’unico che, nella Lega, ha parlato fuori dal coro sulla vicenda del ministro Brancher, non subirà ritorsioni dal gran capo nel breve periodo. Visto che, confermando la tesi dell’editoriale del Giornale di sabato, ha chiaramente ammesso che il neoministro per l’attuazione del federalismo non è stato imposto a Bossi (che ha cercato di prenderne le distanze appena è scoppiato il caso del legittimo impedimento), ma, al contrario, è stato nominato con la sua benedizione. «La sera prima del giuramento festeggiammo insieme io, Bossi, Tremonti e Brancher», ha dichiarato candidamente quanto onestamente Calderoli. In attesa di sapere (se mai si potrà sapere) se per questa sua dichiarazione «divergente» verrà bacchettato o no, c’è da dire che proprio Calderoli ha da tempo preso il posto di Maroni nel cuore di Umberto Bossi. Alla recente adunata di Pontida, Bossi ha lanciato un messaggio esplicito sapendo di non fare granché piacere al varesino guerriero della prima ora Roberto Maroni: «Vinceremo la battaglia del federalismo io e Calderoli, perché è Calderoli l’uomo che utilizzo per aiutarmi, quando non posso andare a Roma». D’altra parte l’attuale ministro dell’Interno è abituato ad entrare e ad uscire dal congelatore, o meglio, dalle grazie di Umberto Bossi. Quando dice ciò che pensa e soprattutto se ciò che pensa non è quello che pensa anche il gran capo, allora sono guai. Era il gennaio del 1995 quando Bossi lanciò il suo anatema ai dissidenti capeggiati allora proprio da Maroni: con me o vi caccio. E così il segretario Luigi Negri fu il primo epurato. E sei mesi fa, per citare uno dei tanti incidenti di percorso, quando Maroni ebbe a dire: «Se dall’opposizione arriveranno proposte per dare più soldi alla polizia, la Lega è pronta a sostenerle perché sulla sicurezza non possono esserci vincoli di maggioranza», subito Bossi dichiarava: «Maroni l’ho allevato io quando era ragazzino e quindi farà ciò che dice la Lega».
Poche ma chiare parole come quelle che accompagnarono il clamoroso, storico allontanamento da Bossi del padre della Lega, il professor Gianfranco Miglio. Un divorzio non proprio consensuale, avvenuto dopo il cosiddetto Decalogo di Assago del 1993 e la nuova strada imboccata da Bossi, che portò Miglio a rompere con il partito, nonostante moltissimi militanti e sostenitori leghisti continuassero a provare grande simpatia e ammirazione per lui e per le sue teorie. Fino alla morte di Miglio alcuni dirigenti della Lega, in particolar modo Giancarlo Pagliarini e Francesco Speroni (che forse anche per questo motivo una grande carriera nella Lega di Bossi non l’hanno fatta), fecero di tutto per mantenere vivo il dialogo con il professore.
Altro illustre epurato o, se preferite, desaparecido è l’ex sindaco di Milano. Il 20 giugno del 1993 Marco Formentini venne eletto rappresentando per la Lega Nord un vero exploit, tanto che Bossi si affacciò da un balcone in piazza Duomo assieme al neosindaco per salutare i sostenitori. Ebbene, dopo quell’esperienza da sindaco di Milano, Formentini è rimasto ai margini della vita politica italiana. Nel 2004 è addirittura apparso come candidato nelle file dell’Ulivo, ma non è stato eletto.

E che dire di Irene Pivetti, bimba prodigio del Carroccio Anni ’90 ed ex presidente della Camera, cacciata in malo modo nel 1996, per il suo no alla secessione? La Pivetti seppe dell’espulsione seguendo il tiggì. All’assemblea leghista di Mantova si era permessa di prender da parte Bossi e dirgli che la secessione era solo un’idea sua, non della Lega. Un po’ troppo per un gran capo che esige massima obbedienza.

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