Ma quanto razzismo contro il principe

Ultima moda dell’intolleranza intelligente: a Sanremo fischi e insulti al giovane Savoia

Ma quanto razzismo contro il principe

C’è pure la prova tv. In diretta, su Raiuno, sabato sera, un quindici milioni di italiani collegati, adunata oceanica, spalti gremiti. Appare sul palco un signore di anni trentotto, già visto e rivisto in altri eventi televisivi, pure sulla stessa rete, ballerino trionfatore. Per evitare lungaggini viene presentato come Emanuele Filiberto e basta, tralasciando l’enunciazione totale della carta di identità: Emanuele Umberto Reza Ciro Renè Maria. Canta assieme a Ghinazzi Enzo, anche nel caso suo accorciato in Pupo, e al tenore Canonici Luca, paro paro da documento anagrafico. Il pubblico prende ad agitarsi, uheggia, parte qualche insulto, brusio, rumori, aumenta il numero dei fischi, la scena già si era vista nei giorni precedenti la finale, sempre in coincidenza con l’apparizione del Savoia. Il quale non essendo di colore ma anzi tendente al pallido non può fare notizia se non ridicola, oggetto di derisione, satira, sarcasmo, barzellette varie, tipo sua altezza al fianco del miniPupo oppure il principe del pisello per non dire peggio. Bah. La sceneggiata va in onda, in radio, di Stato e privata, si possono ascoltare commenti da osteria numero uno, quell’Emanuele lì deve andarsene a casa. Nessuno si scuote per quell’atmosfera circense, da pollice verso, l’intolleranza è ammessa, giustificata, esibita, anzi applaudita, illustrata con accenni simpatici dai media di ogni tipo. Addirittura anche gli orchestrali sul palco trovano il tempo per farsi riconoscere non soltanto per gli accordi. Abituati alle sviolinate, nel senso buono, abbandonano gli strumenti, l’abito da sera, la postura compita e reagiscono da soubrettes capricciose, stracciano gli spartiti, li accartocciano, li lanciano verso la smarrita Clerici Antonella che vorrebbe tornare tra le tagliatelle di nonna Pina e invece è costretta ad assistere alla ribellione dei tromboni che non accettano di vedere premiato un simile obbrobrio musicale, meglio i Jalisse, o no? Emanuele, e tutto il resto araldico che si porta appresso, non cambia espressione, cerca di capire se «Italia amore mio» da lui scritta e musicata dal Pupo, sia un errore di ortografia oppure di grammatica o, ancora, di espressione visto quello che gli italiani stavano combinando all’interno del teatro Ariston di Sanremo, proprio davanti agli occhi suoi che sembrano sbirciare tra il pubblico, il padre e la madre, divisi, confusi, forse in settima fila, o forse in ottava, obbligati a non applaudire per non farsi riconoscere, cosa del resto impossibile, anche in pieno regime, si dice così, repubblicano. Anche questa sembra una leggenda metropolitana, lanciata ieri in tivvù, tanto per aumentare il senso di ridicolo della vicenda, dei suoi personaggi e interpreti: «I fischi mi hanno ferito, specie quelli preventivi ma credo che il pubblico che ci ha votati mi abbia adottato», ha commentato Emanuele Filiberto. Adottare un principe non è il massimo per i signori in smoking e le dame ingioiellate dell’Ariston, un popolo che non arriva a fine mese ma al festival sì. Insomma già abbiamo dovuto tollerare e sopportare le facce di circostanza della famiglia regale al rientro dall’esilio, adesso dobbiamo sorbirci la presenza continua in televisione del figliol prodigo, uno che non soltanto balla ma pure canta? Giammai. Tra l’altro voci perfide insinuano che il sabaudo piazzatosi in classifica secondo a sorpresa sarebbe la conferma del referendum del Quarantasei, non vince nemmeno con il voto popolare. Il razzismo è una cosa seria, tremendamente seria anche se qualcuno lo confonde con i buu idioti all’interista Balotelli, nei vari stadi di football. Dunque non è il caso di scendere in piazza e di organizzare convegni e fiaccolate per gli insulti al Savoia. Ma se a Sanremo non appartieni a una parte o a un partito, se non sventoli una bandiera, se non fai tendenza o propaganda politica allora sei fottuto e sfottuto, al massimo sopportato in quanto artista cantante (chiedere informazioni a Fausto Leali o a Enrico Ruggeri). Ma se poi arriva anche il nobile, dunque uno già segnato alla partenza perché non riconosciuto nel titolo, e se il nobile stesso è un Savoia, dunque riconoscibilissimo a prescindere, colpevole per eredità, tra parenti, olive e tanghi, ecco che il «telescherno» si illumina, ecco che saltano le marcature e diventano leciti gli insulti, le pernacchie, le insinuazioni.

A differenza di quello che scriveva Machiavelli, il principe non è né volpe né leone ma soltanto un povero pirletta da prendere in giro, da rispedire in esilio, lui con tutti i parenti suoi, chissenefrega. È la democrazia, bellezza, è «Italia amore mio». Emanuele Filiberto non ha capito nulla. Indietro Savoia.

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