Washington - Il Carnevale è passato, la guerra continua. La contesa elettorale americana, che calcoli degli strateghi di entrambi i partiti avrebbe dovuto essere decisa dal Supermartedì con la sua orgia di primarie e di caucus, è invece rimandata. Dalle sfide di ieri esce vincitore, tra i democratici, Barack Obama, che ora tallona Hillary Clinton. I quattro test del sabato si sono risolti in un plebiscito per il candidato afroamericano: dalla Louisiana nel Profondo Sud, allo Stato di Washington nel Nord-Est, passando per il Nebraska, arido cuore della prateria, filo alle Isole Vergini. Il senatore multicolore ha sconfitto la Clinton 56 a 37 a New Orleans, l'ha travolta a Seattle e Omaha più che doppiandola, 68 a 32. Netto il successo anche nelle Isole. Vittoria nella notte anche nel Maine con circa 57% contro il 42%, in preparazione della «battaglia del Potomac» di domani in Virginia, nel Maryland e nella città di Washington.
Per i democratici svaniscono le ultime prospettive di una soluzione numerica entro primavera auspicata dalle gerarchie organizzative del partito. Obama, con i risultati di ieri, ha quasi raggiunto l’ex first lady: ora il senatore dell’Illinois ha superato quota 1.070 delegati, all’incirca meno di 20 della senatrice di New York. Ma Obama ha dalla sua quello che qui si chiama il «momentum», il vantaggio psicologico di stare guadagnando terreno. Un inaspettato e prestigioso appoggio potrebbe giungere al senatore dell’Illinois da un altro afroamericano, il repubblicano Colin Powell. Il generale, ex segretario di Stato, non ha escluso di dare il suo voto per il rappresentante nero del Partito democratico. Parlando con la Cnn, ha detto: «Voterò per il candidato che, secondo me, potrebbe fare il lavoro migliore per il futuro dell’America. Indipendentemente dal fatto che si tratti di un repubblicano, un democratico o un indipendente». E ha definito Obama una personalità «in grado di ricostruire la fiducia nel Paese e l’immagine positiva degli Stati Uniti».
Carburante ad altissimo numero di ottani per l’uomo dell’Illinois, ormai nettamente avanti alla rivale come numero di Stati vinti e che può sperare in un buon risultato anche domani nell'area del Potomac. Hillary sta però costruendosi una linea fortificata in due grandi Stati in cui si voterà in marzo: l'Ohio e il Texas.
L'Ohio ha una forte tradizione democratica «moderata», strutturata su sindacati ancora potenti e nel Texas, secondo solo alla California come numero di abitanti (ha ormai da tempo surclassato New York), la massiccia presenza ispanica dovrebbe garantirle un largo successo, ma sua strategia si rivela essenzialmente difensiva. In Texas e in Ohio la Clinton «deve» vincere, altrimenti sotto la sua candidatura un tempo «inevitabile» si aprirebbero vuoti grandi come voragini.
Alla Clinton rimarrà comunque, è vero, la carta dei i «superdelegati», i non eletti che ad uno ad uno stanno compiendo le loro scelte di campo: 130 circa per Hillary, una settantina per Obama. Ce ne sono almeno altri trecento che devono ancora decidere. I meno illustri vengono agevolati nella loro scelta da rapporti di ogni genere con i candidati, alcuni dei quali anche finanziari. Altri ancora sono essenzialmente quelli che nella Vecchia Europa si chiamano «notabili», detentori o ex detentori di cariche importanti. Il più noto è un ex presidente di nome Bill Clinton.
In campo repubblicano il senatore dell’Arizona John McCain continua a godere di un ampio margine sul pastore batista Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas. Il reverendo si è però preso ieri una bella rivincita sul rivale, sconfiggendolo nel Kansas e nella Louisiana. McCain si è comunque imposto nello Stato di Washington ed è ormai a un passo dal numero minimo dei delegati necessari per ottenere la nomination.
Huckabee ha sostanziato di nuova legittimità la sua determinazione ad andare avanti fino alla Convenzione. Egli si pone così automaticamente in prima fila nella scelta che McCain e il partito dovranno compiere e che riguarda il vicepresidente. Avere una scelta è sempre un vantaggio, ma in questo caso essa è complicata. Le ultime primarie confermano che i «conservatori» di varia origine sono in maggioranza nel Partito repubblicano e che il successo di McCain deriva anche dalle loro divisioni.
Ma soprattutto dal fatto di essersi profilato come un «moderato» in grado di attrarre milioni di «indipendenti», suscitando in alcuni conservatori la tentazione della rivolta. Bisogna accontentarli, per esempio concedendo la vicepresidenza a personaggi dell'establishment (o addirittura della Dinastia): si fanno i nomi di Jeb Bush, fratello del Presidente in carica, e di Condoleezza Rice.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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