Quei giorni in cui la pietà era morta

L’epilogo d’una guerra civile, con la sua ferocia e le sue vendette, è sempre sanguinario. I vincitori instaurano una loro legge che non vuole solo punire coloro che furono nemici, vuole annientarli

Pietà l’era morta. L’epilogo d’una guerra civile, con la sua ferocia e le sue vendette, è sempre sanguinario. I vincitori instaurano una loro legge che non vuole solo punire coloro che furono nemici, vuole annientarli. E poco importa che siano ormai domati e inoffensivi. Le procedure adottate per realizzare questo obbiettivo furono, nel caso italiano, svariate. Come la messa a morte spicciativa, dopo convulse e dubbie delibere ufficiali, di Mussolini, della Petacci e dei gerarchi di Dongo. Come l’esecuzione di Osvaldo Valenti, di Luisa Ferida, di Roberto Farinacci. Come l’irruzione di ex partigiani nelle carceri di Schio, dove erano rinchiuse decine di fascisti o presunti tali: falciati con sventagliate di mitragliatore. Questa caccia all’uomo non sottilizzava sulle personali responsabilità. Obbediva a impulsi di cupa rivalsa, talora belluini. Donato Caretta, che durante l’occupazione nazista di Roma aveva diretto il carcere di Regina Coeli senza particolare durezza, fu inseguito e linciato, mentre deponeva come testimone, per l’urlo d’una donna isterica, una delle tricoteuses che ai piedi della ghigliottina non mancano mai. Per certi aspetti alcuni processi del dopo-Liberazione, cui si volle dare una parvenza di legalità, furono ignobili quanto gli ammazzamenti alla rinfusa, e forse ancor più, perché lo Stato diede il proprio avallo e prestò la proprie autorità a Tribunali eccezionali - fossero o no qualificati «del Popolo» - nel cui codice la pena capitale aveva un ruolo dominante, era un obbiettivo incessante. Non so quanto rispondessero a verità i capi d’accusa addebitati agli imputati contro i quali Oscar Luigi Scalfaro sostenne l’accusa. Può darsi che fossero ineccepibili. Ma di sicuro quegli imputati non furono giudicati in maniera equa e neanche, si direbbe adesso, sobria. L’atmosfera era quella, d’un cupo colore scarlatto, una gran voglia di vittime umane per appagare gli assatanati, per compensare altre vittime, nell’inseguirsi d’un Grand Guignol reale. Leo Valiani non era per niente spietato, ma tale sembrò nell’assentire alla spedizione del «commando» che uccise il Duce e Claretta Petacci. Non voglio puntare l’indice, postumamente, contro il giovanissimo magistrato Scalfaro che accettò d’avere un ruolo in quella che fu comunque una parodia di Giustizia. Il clima era adatto alle già citate tricoteuses, o a un fucilatore disinvolto come Giuseppe Marozin, non alle toghe. Cui spettò a volte il compito - ribellarsi era difficile e molto pericoloso - di assecondare la recita processuale dei fanatici. Le «macellerie messicane» che oggi ci sembrano, retrospettivamente, orribili, calarono il sipario su una guerra perduta e su un’Italia lacerata. Fu tutta questione di tempismo. Chi si sottrasse all’ecatombe iniziale salvò la pelle. Rodolfo Graziani, che aveva avuto l’accortezza di non unirsi alla colonna di Dongo, potè poi pavoneggiarsi in un’aula di giustizia.

I fucilati di Novara ebbero la sventura d’incappare negli artigli d’una giustizia settaria prima che fosse stata ristabilita una qualche autentica legalità. Per loro la pietà, finalmente risorta, è arrivata troppo tardi.

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