Che chiave di lettura dare allora dell’udienza di venerdì scorso? Vi era una effettiva utilità di sentire Spatuzza, collegata al processo d’appello contro il senatore Dell’Utri? Gli addetti ai lavori concordano per la risposta negativa: nessun giudice finora ha attestato l’attendibilità intrinseca o l’esistenza di riscontri per questo pentito, anche quando non chiama in causa Dell’Utri e Berlusconi; lo ha spiegato il procuratore nazionale antimafia Grasso: «È inusuale che le dichiarazioni di un pentito entrino in un processo nonostante debbano ancora essere verificate». E allora? Forse la partita è un’altra, ed è tutta politica, pur se ha per co-protagonisti alcuni magistrati. Da un lato c’è l’antimafia dei fatti: quella che cattura i latitanti; che sequestra e confisca i beni dei mafiosi con numeri da Legge finanziaria; che si costituisce parte civile nei processi contro le estorsioni, a Palermo come a Santa Maria Capua Vetere; che con la sua azione genera la sana ribellione della gente per bene: lo testimoniano le scene di gioia per l’arresto dei boss in Sicilia e la vitalità di tante associazioni antiracket, in aree nelle quali la reazione era impensabile fino a pochi mesi fa. È un’antimafia poco attenta ai proclami, il cui lavoro rompe una egemonia, culturale prima ancora che operativa, e manda in frantumi un mito, fino a poco tempo fa ancora resistente: quello secondo cui l’antimafia sta solo a sinistra. Nella sinistra giudiziaria, anzitutto. E poi in quella politica, in quella giornalistica, in quella (per quanto assurdo possa apparire) del volontariato.
L’intento del governo, nel momento in cui ha chiesto al Parlamento di varare - come è accaduto - norme più efficaci, non era certo quello di aprire una contesa di questo tipo: è stato un effetto riflesso. Ma adesso è in atto. C’è un filo rosso, nel senso proprio del termine, fra l’enfatica protesta sui beni confiscati (assolutamente infondata: nessuno impedisce la destinazione sociale del bene; si punta solo a evitare inutilizzazioni fra ciò che viene sottratto alle mafie) e la conferenza stampa predisposta per Spatuzza nell’aula giudiziaria di Torino (non saprei qualificare diversamente l’audizione del collaborante all’udienza del 4). Il filo rosso è il disperato tentativo di recuperare un vecchio modo di combattere la mafia. Torino è diventato l’emblema di un ritorno al passato: 15 anni fa qualcuno ha provato ad allestire processi fondati esclusivamente sulle parole dei pentiti, immaginando che le dichiarazioni dell’uno riscontrassero quelle dell’altro. I risultati in termini di (non) condanne hanno certificato il fallimento di questa strategia. Venerdì scorso si è tentato un colpo di coda, ed è andato nuovamente male. Non vuol dire che chi pervicacemente ha perseguito questa strada rinunci: se una prospettiva di condanna, seguendo questi metodi, oggi è ancora più improponibile del passato, si ripiega sul danno di immagine per il Capo del governo, soprattutto all’estero.
Per questo non va smantellato nulla del dispositivo di contrasto alla mafia (legge sui pentiti inclusa).
Ne va pretesa la corretta e integrale applicazione da parte di tutti, per rendere evidente che mentre lo Stato, in tutte le sue articolazioni, mette in ginocchio i clan, una fascia di magistrati utilizza aule giudiziarie e aspiranti pentiti per rigiocare partite perse e per recuperare credibilità almeno mediatica. Con quale effetto è sotto gli occhi di tutti.*Sottosegretario all’Interno
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