Nei giorni finali dell'amministrazione Trump si è assistito a qualcosa d'incredibile. A seguito di alcune dichiarazioni rilasciate dal presidente statunitense, durante le convulse ore che hanno visto un gruppo di esagitati entrare nel palazzo del Congresso a Washington, i più importanti social network (Twitter e Facebook) hanno cancellato l'account del presidente. In tal modo quelle imprese hanno sottratto a Trump il principale strumento oggi nelle mani di qualsivoglia politico che intenda comunicare con il pubblico.
Nella prospettiva della cultura prevalente, in vario modo progressista e socialdemocratica, il venir meno di questa facoltà coinciderebbe con l'impossibilità ad avere voce nel dibattito pubblico: come una vera e propria censura. Non è questa la posizione liberale, che considera cruciale il tema della proprietà: se Mark Zuckerberg è il titolare di Facebook e se quella sua decisione non viola gli impegni contrattuali assunti, è chiaro che egli è legittimato a mettere fuori dal suo network chiunque voglia. Tanto più che è sempre possibile dare vita ad altri circuiti e fare concorrenza a quanti oggi hanno più successo. Peccato, però, che proprio nelle stesse ore il social network creato dai sostenitori di Trump (Parler) sia improvvisamente sparito, dato che - con le stesse giustificazioni che hanno condotto all'espulsione di Trump - Amazon ne ha bloccato l'hosting, mentre Google e Apple hanno bloccato l'accesso al social dai loro server.
Ogni privato può fare entrare in casa sua chi vuole ed escludere chi non gradisce, ma dobbiamo chiederci cosa resti davvero di privato in questa nostra società caratterizzata da una crescente invasione della politica nell'economia. Oggi abbiamo una regolazione talmente pervasiva che per qualsiasi gruppo industriale e finanziario è facile avere successo grazie a regole volte a favorirlo; al tempo stesso, quanti legiferano e ci governano possono di fatto minacciare ogni posizione economica, al punto che al di sopra di una certa dimensione risulta quasi impossibile sopravvivere senza soddisfare tutta una serie di offerte che non si possono rifiutare.
Sotto taluni aspetti, non c'è nulla di nuovo sotto il sole. Quando nella seconda metà dell'Ottocento l'industriale vicentino Alessandro Rossi chiese a gran voce protezioni per l'industria tessile e sostenne pure la necessità di commesse pubbliche, fu immediatamente chiaro come già nell'Italietta di allora il pubblico invadeva il privato e il privato invocava a gran voce ogni forma di tutela e privilegio. Se questo avveniva entro quel mondo, quando il ruolo dello Stato era confinato in spazi ben limitati, c'è da stupirsi dinanzi all'intreccio che collega Washington e Wall Street, ora che i poteri statali intermediano una parte tanto rilevante dell'economia (basti pensare alle manipolazioni monetarie)?
Per cogliere la gravità della situazione alcuni dati possono essere utili. Quando nei mesi scorsi è stato chiamato a finanziare i candidati in campo, Facebook ha speso 3,6 milioni di dollari, di cui ben l'89,7% è stato indirizzato verso il campo democratico; a sua volta, Amazon ha donato 6,1 milioni di dollari, consegnandone alla sinistra l'84%. Sostanzialmente analogo è stato il comportamento di Google, che ha speso 3,8 milioni di dollari e ne ha riservato il 90% ai democratici. E si potrebbe continuare.
Facebook, Google e le altre grandi corporation sono aziende formalmente private, ma possono ottenere enormi benefici dai rapporti che intrattengono con i centri del potere politico, agendo in maniera molto efficace nei riguardi dei professionisti della politica, dato che dispongono di ingenti risorse da investire in attività lobbistiche. Oltre a ciò, si tratta di imprese che in ogni momento possono essere spazzate via da una nuova normativa fiscale, oppure da una qualche interpretazione del diritto alla concorrenza, oppure da regole ad hoc riguardanti la privacy, l'editoria e l'intero universo del virtuale.
Alla luce di tutto ciò, c'è da chiedersi se sia legittimo il comportamento di Zuckerberg, Dorsey, Bezos e Gates quando chiudono la bocca a quanti esprimono opinioni che essi non apprezzano. C'è soprattutto da chiedersi se le loro aziende - attive entro questa economia tanto corporativa e socialista - siano ancora autenticamente imprese private, se si considera che agiscono continuamente di concerto con quanti dispongono del monopolio legale della violenza, o se non siano sempre più - nei fatti - le nuove articolazioni di un potere politico molto più complesso di quanto non fosse in passato.
Per questa ragione, ora tornano perfino d'attualità una serie di analisi di più di mezzo secolo fa. In particolare, un intellettuale americano (prima trockista e poi conservatore), James Burnham, nel 1941 pubblicò un volume intitolato La rivoluzione manageriale in cui sosteneva che la Germania nazista, la Russia staliniana e l'America del New Deal stavano convergendo sempre più, dato che in ognuno di questi contesti l'intervento pubblico portava all'affermazione di una nuova classe. In particolare Burnham insisteva sul ruolo decisivo, in ognuno di tali contesti, dei manager: di quanti in una società o nell'altra amministrano la società nel suo insieme. Il punto cruciale, però, è da individuare nel dissolversi della linea che storicamente ha separato il pubblico dal privato, lo Stato dal mercato.
Quando negli anni Novanta l'impero sovietico crollò molti si illusero che quella società si sarebbe aperta alla libertà di mercato. Non fu così. Spezzoni del vecchio regime s'insediarono alla guida politica e si spartirono le grandi ricchezze del Paese: soprattutto, i giacimenti di materie prime. Il risultato è che oggi Vladimir Putin è un politico che controlla l'economia e gli oligarchi sono uomini d'affari che vivono all'ombra del potere.
A ben guardare la situazione non è del tutto diversa in Cina, dove da qualche decennio il regime comunista ha aperto spazi all'impresa privata, ma solo per aumentare la propria capacità di controllo e per accrescere le risorse di cui può disporre. Oggi perfino chi si limita a seguire il calcio si rende conto che se Suning ha deciso di modificare i suoi progetti imprenditoriali riguardanti l'Inter questo dipende da un diktat del partito comunista. È insomma il potere che, alla fine, orienta in una direzione o in un'altra le scelte dei grandi gruppi industriali.
Ovviamente in America le cose sono un po' più complesse. Eppure quando tanti parlano di deep State quello che essi intendono evocare - in forma molto semplificata - è proprio tale rapporto corrotto che collega le élite politiche, i nuovi e vecchi protagonisti dell'industria e della finanza, gli alti burocrati, i principali media e le correnti intellettuali egemoni. Quello che Gore Vidal aveva delineato ne L'età dell'oro, formidabile romanzo del 2000, adesso è ancor più sotto i nostri occhi.
Il risultato è che, in questo Occidente progressivamente corroso da decenni d'interventismo statale, come alla fine della Fattoria degli animali di George Orwell in troppe circostanze ci si trova a volgere lo sguardo verso i capitalisti e di seguito verso i politici, e poi verso i politici e di nuovo verso i capitalisti; e la sensazione è che gli uni siano sostanzialmente indistinguibili dagli altri, al punto che quelli che un tempo erano liberi imprenditori danno sempre più la sensazione, né più né meno, di essere gli oligarchi dell'Occidente.
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