Quei ragazzi di Soseki, fra Musil e Proust

Daniele Abbiati

Giapponese vissuto in bilico sul crinale che separa il Giappone tradizionale da quello occidentalizzato, Natsume Soseki (1867-1916) diceva di sé: «La mia testa è metà occidentale e metà giapponese, quindi non riesco a esprimere in nessun modo con una soddisfacente lingua giapponese ciò che ho pensato secondo il pensiero occidentale». Quindi che cosa fece? Reinventò la lingua giapponese, staccandosi dai formalismi estetizzanti della scrittura per avvicinarsi all'immediatezza del linguaggio parlato. E aggiungendovi, da ottimo conoscitore della cultura anglosassone, il tanto che basta di stream of consciousness, il flusso di coscienza joyciano.

In ciò consiste la sua modernità, che lo colloca ancor oggi, a un secolo dalla morte, fra gli scrittori nipponici più amati sia all'estero (e questo non sorprende), sia in patria, visto che alcune sue opere sono adottate come libri di testo, nonché trasposte in manga. Per sperimentare il punto di vista tipico di Soseki, assiso sul crinale di cui dicevamo, niente di meglio che uno dei suoi ultimi romanzi, uscito a puntate sull'Asahi Shinbun nel 1912: Fino a dopo l'equinozio (nelle nostre librerie dall'8 febbraio per i tipi di Neri Pozza). Dove spiccano le figure di due giovani amici, neolaureati, insoddisfatti, flâneur, incostanti, fluttuanti in una Tokyo per certi versi simile a Parigi o a Londra. Keitaro vive a pensione, Sunaga con la madre. Il primo cerca, senza molta convinzione, un lavoro, il secondo non ci pensa nemmeno. Fagocitato dalla numerosa famiglia dell'amico, Keitaro ha una serie di esperienze stranianti e quasi oniriche, in una prima parte che tende al noir. Mentre Sunaga, nella lunga confessione che occupa la seconda parte del libro, si rivela il più tormentato fra i due, ostaggio di un quasi-amore nei confronti di una cugina.

Insomma, Keitaro è un Törless musiliano, Sunaga un mammone proustiano.

Che cosa diventeranno, quando saranno finalmente uomini fatti? Non certo dei fieri samurai al servizio di una causa, né, al contrario, degli esteti fini a se stessi. Soseki ci suggerisce, pur senza formularla, la risposta: saranno uomini contemporanei del secolo a venire, quello in cui l'Oriente e l'Occidente piangono insieme sulle loro miserie.

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