Tre italiani sono scomparsi nel nulla in Messico, il 31 gennaio 2018. Raffaele Russo, 60 anni, il figlio Antonio e il nipote Vincenzo Cimmino venivano tutti da Napoli in cerca di un futuro migliore. Non sono stati ancora ritrovati, ma venerdì un tribunale messicano ha condannato a 50 anni di carcere un pugno di agenti di polizia corrotti, che li ha sequestrati e consegnati ai narcos per soli mille pesos a testa, l'equivalente di 41,63 euro. Una storia terribile e dimenticata da tutti. Scomparsi di serie B con tanto di boss fantasma e colpi di scena. All'ultima udienza del processo una poliziotta coinvolta è fuggita dal tribunale come in un film sui gangster di Hollywood.
«Sì, sono scomparsi di serie B! In questi tre anni nessun esponente politico, a parte il presidente della Camera, Roberto Fico, ci ha messo la faccia o ne ha parlato in tv. Anzi è come se tutti evitassero il caso. Altri connazionali però sono stati tutelati molto diversamente, a volte pagando riscatti, ma della mia famiglia non ne parla nessuno», sbotta Francesco Russo, figlio di Raffaele. I tre scomparsi erano venditori ambulanti non volontari delle Ong, giornalisti o studenti come Giulio Regeni finiti male in terra straniera. L'Italia si sta preoccupando ben più di Patrick Zaki, in carcere al Cairo come oppositore, che ha studiato a Bologna, ma è cittadino egiziano.
Adesso che la famiglia ha raggiunto un primo tassello di giustizia, il Giornale racconta la tragica storia. All'inizio si era parlato, falsamente, di sgarri nel mondo della droga e della malavita organizzata, ma in realtà i napoletani volevano solo vendere merci regolari. E forse per questo hanno dato fastidio a uno dei cartelli criminali più sanguinario del Messico. L'avvocato della famiglia, Claudio Falleti, non ha mai mollato e ha sempre denunciato «uno scandalo internazionale, dove a consegnare tre italiani a un gruppo di criminali è stata la polizia locale sul libro paga dei narcos».
Il 31 gennaio 2018, Raffaele Russo usciva di casa alle tre del pomeriggio per sparire nel nulla tra le strade di Tecalitlan nello stato di Jalisco. Una cittadina di 16mila abitanti, a circa 600 chilometri a ovest di Città del Messico. Preoccupati per il silenzio del familiare e per il cellulare staccato, figlio e nipote sono corsi a cercarlo, anche se erano arrivati nel paese appena da cinque giorni. E pure loro vengono inghiottiti nel nulla. Prima di sparire Antonio Russo riesce a mandare un audio messaggio via whatsapp, fatto sentire nell'aula di tribunale. «Stavamo facendo benzina qui sotto al distributore la polizia... la polizia, due moto della polizia - dice lo scomparso - Adesso stiamo andando dietro alla polizia, uno con la moto ci ha detto venite dietro di noi!, una macchina dietro». Si sente anche la voce di Vincenzo Cimmino, che allarmato conferma: «Ci ha preso la polizia».
Francesco Russo allora era pure in Messico e in tribunale ha raccontato «della telefonata al comando di polizia per sapere di papà. La centralinista mi rispose che avevano fermato Enzo e Antonio. Pensavo che la polizia volesse aiutarli nelle ricerche. Quando richiamai, la stessa persona ha negato tutto sostenendo che non sapeva niente degli italiani e che non aveva mai detto che erano stati fermati».
A lungo si è cercato di insabbiare e depistare, ma l'avvocato Falleti si è rivolto anche all'Onu per ottenere giustizia. «Una battaglia che abbiamo condotto da soli avvertendo il distacco delle istituzioni», sottolinea il legale. Nell'ultimo anno, però, l'ambasciata italiana in Messico è intervenuta arrivando finalmente al processo iniziato il 22 marzo. Quattro poliziotti sono stati arrestati, ma uno è morto in carcere. Alla sbarra sono finiti Salomon Adrian Ramos Silva, Emilio Martines Garcia e la centralinista Lidia Guadalupe Arroyo.
In aula Francesco ha chiesto «che sia fatta giustizia. Vogliamo la verità, ma soprattutto chiediamo agli imputati di farci sapere dov'è la nostra famiglia. Se fosse accaduto qualcosa dateci la possibilità di ritrovare i corpi. Da tre anni ci sono madri, mogli e figli nella totale disperazione».
I poliziotti corrotti hanno venduto i tre italiani per poche decine di euro al cartello della Jalisco Nueva Generacion. Su una strada di montagna Antonio e Vincenzo venivano consegnati a «Don Angel», un tagliagole tarchiato con un Suv rosso e un dente di platino, che ancora oggi non è stato identificato con certezza. Anche il capofamiglia, Raffaele, scomparso per primo, era finito nelle grinfie di Don Angel.
Nel luglio 2018 venivano ritrovate le automobili noleggiate dai connazionali scomparsi e sul cellulare di un sindaco assassinato dei file audio con la voce di Jose Guadalupe Rodriguez Castillo alias, «El Quince», il capo del cartello dei narcos. Il criminale aveva ricevuto la comunicazione che tre italiani di cognome Russo erano stati catturati dalla polizia. «Fatene ciò che ne ritenete più opportuno», è stato il tragico ordine impartito, che ha segnato la scomparsa dei napoletani. «El Quince» è stato arrestato, ma poi, inspiegabilmente rilasciato dalla prigione di Puente Grande. Nell'agosto dello scorso anno è trapelata la notizia che il boss sia stato ucciso da una granata in un regolamento di conti interno al gruppo, «anche se il corpo non è stato ritrovato - spiega l'avvocato -. Potrebbe essere tutta una messa in scena per sfuggire alla giustizia messicana».
L'ultimo colpo di scena è la fuga della centralinista il primo aprile, data dell'udienza prima della condanna. Lidia Guadalupe Lopez, ha approfittato di una pausa del processo per allontanarsi dal tribunale facendo perdere le tracce.
La donna ora è ricercata, ma il 9 aprile tutti i poliziotti coinvolti nella vicenda sono stati condannati a una pena di 50 anni di carcere e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Un atto di giustizia, non definitivo perché bisogna ancora trovare i corpi dei tre italiani scomparsi e dimenticati.
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