Quella volta che Blair fu costretto a rinunciare ai «panigacci»

di Ferruccio Repetti

È la «specialità speciale», il panigaccio, della Lunigiana, terra di confine, Lunezia, tra Liguria e Toscana, più Liguria o più Toscana a seconda di come intendi il senso dei confini e le barriere culturali. Che, poi, in fondo, queste barriere culturali si misurano anche a tavola, dove - unico non-luogo del cuore e dello stomaco - ci si può riconoscere tutti meticci e solidali ovvero tutti autonomi, persino anarchici dell’individualismo assoluto, senza che per così poco o così tanto si attacchi briga con gli altri commensali. Sarà anche per questo che la fama del panigaccio, ecco, questo risultato dell’impasto di semplice farina e acqua e sale, magicamente, gustosamente cotto (sublimato? Sì, sublimato!) nei «testi» di coccio, ha travalicato i confini locali e regionali, fino ad ammaliare «grandi» e «piccoli» del mondo, affratellati dalla ricerca di tipicità e sapori delle cose buone. Fino nel Regno Unito, dove un certo Tony Blair, primo ministro della Corona, amante dell’Italia dove trascorre ogni estate le vacanze, a un certo punto s’era messo in testa di assaggiare un bel piatto di panigacci. È chiaro: per uno come lui, costretto ad accontentarsi undici mesi e mezzo all’anno di roast beef e fish and chips, l’assaggio di un bel piatto di panigacci conditi col pesto o coi funghi, cucinati come Dio comanda, dev’essergli sembrata una chimera, un obiettivo eccelso, un imperativo categorico quasi come diventare premier o capo dei Tories, o farsi ricevere dall’amico Silvio a Villa Certosa.
Così Blair - lo rivela egli stesso nel libro di memorie, «Un viaggio», appena uscito anche in Italia per i tipi di Rizzoli - ha puntato un tempio della cucina lunigianese, «La Gavarina d’oro» di Podenzana, e ha tentato l’approccio. Solo che i titolari - che non fanno differenza, appunto, fra i cosiddetti grandi e piccoli del mondo, ma danno rigorosamente e democraticamente accesso a tutti gli iscritti al partito dei buongustai - non l’hanno fatto accomodare per via del pienone che c’era, quella sera, nel locale. Di più, ammette Tony: «Non mi hanno neanche riconosciuto». Ma lui non se l’è presa, anzi: «In Gran Bretagna - spiega - ero ormai un bersaglio ambulante, mentre lì, in Italia, nessuno aveva la più pallida idea di chi fossi. E alla Gavarina d’oro, per un disguido di prenotazione e il mio pessimo italiano non trovammo un tavolo e fummo costretti a andarcene». Rassegnarsi? Neanche per sogno. Uno come lui che ha sfidato Labour Party e Saddam, Brown e i capricci delle coronarie, s’è intestardito - potenza dei panigacci! - e ha prenotato di nuovo, stavolta per tempo e in perfetto italiano: «Riuscimmo ad andarci - aggiunge - due giorni dopo. Non credo che una cosa del genere mi sia mai capitata». Nessuna fatica a credergli.

Pare che abbia anche fatto il bis, tanto per gradire. Lasciando la flemma britannica fuori della porta della «Gavarina d’oro», per avventurarsi in un «Viaggio» gastronomico certo più appagante di quell’altro suo «Viaggio» letterario e politico.

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