Quello chef di nome Leonardo da Vinci

Sapevamo dello scienziato, dell’inventore, dell’artista. Ora un libro potrebbe svelare nuove virtù

Quello chef di nome Leonardo da Vinci

La perfezione, la proporzione, la quadratura del cerchio. Se la statura di un uomo chiuso in una circonferenza equivale alla misura delle sue braccia aperte come al diametro della tornita figura piana, si rinunci a disporre un galletto nel tondo di un piatto qualora «la sua testa - la sua cresta - non distasse 60 cm dal suolo» mentre ruspava nel cortile. È un Leonardo ruspante e ghiottone quello che, in cucina, armeggiava con stoviglie e coltello come col compasso e col pennello. A dire il vero pestello e mortaio gli servirono a schiacciare mandorle e pinoli prima che tempere e colori. E la cucina del patrigno pasticciere fu teatro del suo apprendistato prima della bottega del Verrocchio.
Non poteva esserci scuola migliore per il futuro Gran Maestro di Feste e Banchetti alla corte degli Sforza: qui il ragazzino si appassionò alle forme, i colori (e i sapori) dei ritagli di marzapane in cui plasmava modellini da far asciugare al sole di Toscana. Qui sviluppò l’ingegno (e il gusto) per creare marchingegni, manufatti (e manicaretti) sfoggiati poi a Milano «per il mio Signore Lodovico»: il Moro, il governatore, il duca. Creazioni progettate nei bozzetti di quel Codex Romanoff che sembrava contenere disegni d’armi e macchine da guerra e tramanda invece l’invenzione di arnesi e di ricette di cucina. Li riproduce, con appunti dell’autore, l’editore Voland, che pubblica in italiano le Note di cucina di Leonardo da Vinci curate in Inghilterra dallo scrittore comico Jonathan Routh con la moglie Shelagh (pagg. 174, euro 12). Potevano sì sembrare strumenti di tortura il gigantesco tritamanzo, lo schiaccianoci meccanico, o l’argano per tender gli spaghetti. E lo erano: per manzi, noci e impasto di grano (mal)trattati tra la brace e le padelle. Sembra incredibile. E potrebbe esserlo, se si vuole credere a coloro che negano l’autenticità del codice Romanoff. Sull’attribuzione del testo i leonardisti sono divisi: sappiatelo, e leggete il ghiottissimo libretto con un pizzico di scetticismo. Di aneddoti e buoni consigli il leonardesco ricettario - vero o falso che sia - è generoso. Guardando l’eccezionale Chef (davvero lo fu: alla Taverna delle Tre Lumache sul Ponte Vecchio a Firenze) all’opera si impara a bere un infuso di lattuga prima di coricarsi per dormire indisturbato o a cogliere la ruta che cresce sotto l’albero di fico. I piatti poi, di rinascimentale ispirazione, rinascono, a detta del curatore, nell’odierna nouvelle cuisine. E c’è da crederlo se, all’insaziabile Moro il creativo cortigiano proponeva le creste del suddetto (e ben proporzionato) gallo ornate di molliche di pane quando «il Signore Lodovico» voleva «600 salsicce di cervello di maiale». Antesignano di mode alimentari il da Vinci realizzò quattro secoli prima di Mr.

Sandwich l’omonimo tramezzino: «Pensavo di prendere una fetta di pane e metterla fra due pezzi di carne. Ma come posso chiamare questo piatto?», scriveva. Avesse messo firma e copyright su quel panino, anticipando l’anglofono conte giocatore, finiva che il mondo intero avrebbe addentato imbottiti Leonardo d’autore.

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