Quentin riscrive le tragedie da Hitler a Manson

Il regista cambia il vero esito degli avvenimenti E così si inventa il lieto fine (però sarcastico)

Quentin riscrive le tragedie da Hitler a Manson

Il racconto del passato non è mai definitivo. Non è mai qualcosa di fisso e concluso. È una materia plasmabile, dettata spesso dalle esigenze del presente. Ogni generazione ha bisogno di porsi domande nuove. Sin da quando Erodoto e Tucidide hanno fissato 2.500 anni orsono il «canone della memoria», tramandato dal racconto, quanti sono arrivati dopo hanno avvertito il bisogno di ritornare sulla narrazione degli avvenimenti. Un processo mai arrestatosi. Ciò non significa, naturalmente, che il giudizio su personaggi e accadimenti debba cambiare. Può essere modificato. Oppure inventato di sana pianta. Il racconto della storia un tempo è stato orale. Poi scritto. Ora è legato all'immagine. L'alba della storia aveva a che fare con la mitologia avvolta nelle nuvole dell'Olimpo. Oggi il nuovo Olimpo si trova a Hollywood, un'altura verdeggiante, perennemente soleggiata, popolata di dei e semidei. E di narratori. Il regista più originale dell'ultimo trentennio, Quentin Tarantino, sembra aver trovato una «chiave ucronica» per concludere le sue storie. Lo ha fatto almeno in due «film di culto»: Bastardi senza gloria (2009) e, a un decennio di distanza, C'era una volta a Hollywood (2019). Due opere perfettamente postmoderne. Rivisitazione citazionista del passato. Molto spesso sin troppo evidente nel riferimento ad opere ed autori. Nel citazionismo le preferenze riguardano più le opere della cultura popolare che non i classici. Un esempio: adora il western all'italiana, poco importa se messo in piedi da Sergio Leone o Sergio Corbucci. Detesta John Ford. I suoi film hanno poco di patriarcale, patriottico, famigliare, biblico. Segue, in sintonia col proprio tempo, un sistema valoriale nichilista, nel senso che la morale è «al di là del bene e del male». Tutto è relativo: i cattivi non sono così cattivi; i buoni non sono così buoni. E, soprattutto, come suggerisce Nietzsche, «non esistono fatti, ma solo interpretazioni». Quindi non è necessario seguire la veridicità o la logica della storia. Anche quella con la S maiuscola. Se necessario occorre riformularla. Prendiamo Bastardi senza gloria. È un bellissimo film di guerra. Coloratissimo. Debordante. Stravagante. Sorprendente. Concluso da un finale «ucronico». Tutti conoscono la fine di Hitler e di Goebbels. Sono morti a poca distanza uno dall'altro, nel bunker di Berlino nel maggio del 1945. Tarantino, invece, sceglie di farli morire a Parigi, ancora occupata dai tedeschi. La capitale francese storicamente venne liberata il 25 agosto 1944. Hitler, Goebbels e numerosi altri gerarchi nazionalsocialisti, periscono tra le fiamme in una sala cinematografica parigina, complice un incendio purificatore, degno della saga dei Nibelunghi. È la vendetta di una ragazza ebrea proprietaria del cinema (con il concorso di un gruppo di anglo-americani, spietati cacciatori/trucidatori di soldati tedeschi), alla quale hanno sterminato la famiglia. Hitler, che aveva visitato Parigi per nemmeno una giornata intera, il 14 giugno 1940, quando la Francia si era arresa, vi fa ritorno per assistere alla proiezione di un film. Protagonista è un soldato tedesco, un cecchino che da solo, asserragliato su una torre campanaria, ha ucciso 300 soldati nemici. Alle sue gesta è dedicato il film Orgoglio della nazione. Hitler nel vedere le immagini non sta nella pelle. È felice come un bambino. Ma non può minimamente sospettare cosa sta per accadere. In fondo, a Hitler, e specialmente a Goebbels (della sua competenza di produttore Tarantino tesse l'elogio), chiudere il cammino terreno in una sala cinematografica non sarebbe dispiaciuto poi così tanto, essendo stati entrambi, sin dalla gioventù, autentici appassionati di film. Ancora più sofisticato è il finale «ucronico» di C'era una volta a Hollywood. Una lunga premessa serve a contestualizzare la storia. Siamo nell'estate del 1969. Uno squinternato musicista, Charles Manson, a Los Angeles è riuscito a mettere su una scellerata «famiglia», che vive in una comune ai margini della città, composta perlopiù da ragazze alle sue totali dipendenze. Manson si crede la reincarnazione di Satana. E ordina alle ragazze di trucidare quanti si trovano nella casa dell'attrice Sharon Tate, in quel momento all'apice della carriera, sposata con il regista franco-polacco Roman Polansky (fortunatamente si trova in Europa), incinta e prossima al parto. È un massacro. Perdono la vita la donna e quattro suoi amici. Arrivato alla conclusione, il «finale ucronico» di Tarantino capovolge gli avvenimenti così come si svolsero la notte del 9 agosto 1969. Un attore in declino, che abita accanto alla casa di Polansky (Leonardo Di Caprio), insieme ad un suo amico stuntman (Brad Pitt) e ad un cane killer, sventano l'eccidio. L'attore, svegliato dal trambusto, si trova davanti a una scena di guerra. Un'assalitrice, in preda ad un attacco isterico, spara all'impazzata. L'arrostisce con un lanciafiamme, cimelio di un film che aveva interpretato e dal quale aveva deciso di non separarsi. Le ultime immagini chiudono il film con l'attrice che invita a casa il vicino. Scopre che è un collega.

Abitavano a due passi, ma prima di quella movimentata serata, non avevano mai fatto conoscenza. E tutti vissero felici e contenti. Il «racconto ucronico» non ha bisogno di inventare mondi inesistenti o paralleli. Quentin Tarantino ne è la più perfetta esemplificazione. Basta saperlo fare!

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica