Questo è il vero Pasolini depurato dai pasoliniani

Nella sua versione di Orgia il regista Fabio Sonzogni ignora le indebite interpretazioni e resta fedele al pensiero dell’autore

Pier Paolo Pasolini sognò per l’Italia un futuro molto diverso da quello che si sarebbe realizzato dalla sua morte in poi. Sognò anche - lui, uomo di sinistra - una sinistra diversa da quella che in seguito, a causa di una serie disgraziatissima di scelte miopi, le fece perdere qualunque contatto con il cosiddetto paese reale.
Non è un caso, poi, che Orgia, al tempo il più snobbato dei suoi testi teatrali, sia quello che ha conosciuto ai nostri giorni la maggior fortuna scenica e il maggior numero di rappresentazioni, con allestimenti importanti (ricordo quello di Massimo Castri e quello di Valter Malosti). La forza di questo testo sta nel metodo stesso di affronto del problema, partendo dalle contraddizioni e dalle perversioni quotidiane di una coppia piccolo-borghese per allargare il campo visivo all’intera nostra civiltà e agli artifici su cui si è costituita. Nel ben collaudato allestimento che ne fa Fabio Sonzogni, in scena a Milano, al teatro Sala Fontana, fino al 30 marzo, colpiscono soprattutto la linearità della rappresentazione e la possibilità di una presa diretta con il pensiero pasoliniano (solitamente troppo «interpretato» e disinnescato nella sua voluta sgradevolezza) e con i suoi sottotesti.

Un lungo tavolo rosso messo di sbieco - che in seguito si trasformerà in un letto - è tutta la scena, con i protagonisti disposti uno di fronte all’altra. Sta per scendere una notte qualunque in una famigliola qualunque che, nel rituale del sesso, non saprà fare altro che riprodurre i rapporti di potere vigenti nella società piccolo-borghese. Ogni notte i volti vengono sfigurati, i figli uccisi (cioè massacrato il senso della paternità e della maternità), mentre della vita vera, umana - quella dei padri e dei nonni, rievocata con accenti di struggente poesia - non resta che un sogno impossibile da recuperare.

Sonzogni e gli attori sono bravi a consegnarci questa piccola ma veritiera summa del pensiero pasoliniano, lasciandone trasparire, grazie a un allestimento semplice ma pensato, i diversi sottotesti. C’è, per esempio, l’ossessione di Pasolini per la Tragedia Greca e soprattutto per Euripide e la sua Medea, di cui Orgia è una rilettura attenta. La vicenda della regina barbara la quale, pur di non veder cadere i propri figli nelle mani di un mondo che le è nemico, non esita a trucidarli, costituisce per Pasolini uno dei vertici della riflessione politica umana. Nulla è più tragico della politica e nulla è più politico della tragedia. Pasolini cerca di tenere aperto lo spazio della tragedia perché ne comprende la profonda necessità: fuori dal tragico, oggi c’è solo il nulla.

Anche il comunismo di Pasolini fu un comunismo tragico perché impossibile: l’impossibile abbraccio dell’uomo moderno a se stesso, l’impossibile recupero del passato contadino e, insieme, l’impossibilità di essere moderni fino in fondo, fino alle estreme conseguenze, in un mondo che è tutto borghese (sinistra compresa), tutto a metà. C’è, poi, il tema dell’omosessualità, che si lega indissolubilmente al tema della morte. L’omosessuale pasoliniano è un profeta malgré lui: i dispositivi sociali che lo mettono fuori gioco sono il punto in cui la tragedia si scopre. Tornato scapolo (forse separato, forse assassino, che importa?), il protagonista cerca un facile amore - qui una ragazza, com’è corretto, anche se io ci avrei messo un ragazzo - ma incontra solo l’antico popolo beffato, ingannato. Gioca a farle del male, usa il sadismo contro la sua inconsapevolezza, forse per aprirle gli occhi sull’abisso, ma riesce solo a terrorizzarla. Alla fine, finalmente vestito da donna, si impicca, facendo un «buon uso della propria morte», come aveva annunciato.

Scritta nel 1966, questa tragedia getta una luce particolare sulla morte del grande scrittore, avvenuta nove anni più tardi, e sulla necessità che lo spingeva a vivere l’omosessualità nel modo in cui la visse.

La qualità dell’allestimento di Sonzogni sta nella chiarezza. La scelta di sottolineare nel parlato gli accenti regionali (molto lombardo quello di Giovanni Franzoni, romano-borgataro quello della ragazza, Silvia Pernarella) è giusta e utile a comprendere l’impossibile rapporto tra presente e passato che Orgia vuole mettere in scena.

Infine, è sempre chiara e misurata l’interpretazione di Sabrina Colle per questo Pasolini di Pasolini. Per chi voglia incontrare il pensiero dello scrittore di Casarsa, senza troppe superfetazioni interpretative, questa è una buona occasione.

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