Rai, vigilanza al Pd. E il Pd grida: colpo di Stato

Il Pdl e due esponenti del Pd eleggono Villari e non Orlando alla presidenza Veltroni: "Violata ogni regola democratica". Di Pietro: "Il premier come Videla". In mattinata i democratici chiedono a Idv una rosa di nomi, ricevendo un secco no. Prima del voto il centrodestra avverte: cambiate candidato o eleggiamo un altro dei vostri

Rai, vigilanza al Pd. E il Pd grida: colpo di Stato

RomaBianco muove e vince in quattro mosse. Anzi una sola, se vogliamo, ma con esiti dirompenti. È bastato che un pizzico d’ardimento suggerisse l’irruzione nel campo dei neri (alla fine neri di rabbia, naturalmente) ed ecco rotta l’incredibile situazione di stallo che perdurava da sei mesi alla commissione di Vigilanza sulla Rai. Tutto in una mattinata di sturm und drang: elezione a sorpresa del presidente, Riccardo Villari; Di Pietro furioso per il suo Orlando; Veltroni caduto da cavallo. Ancora una volta.

L’antefatto. Lo scacco matto si respirava già nell’aria del mattino, uggioso tendente al brutto. Nuvoloni che si addensavano sulla riunione del Pd, nella quale sempre più voci si levavano contro una strategia perdente. «Basta, non possiamo attaccare sempre l’asino dove vuole Di Pietro», il commento di uno dei riottosi. Ma Uòlter, il leader, proprio non se la sentiva di fare la voce grossa con quel testardo di molisano. Goffa la soluzione finale: di concerto con Casini veniva rivolto un appello al Pdl a non «provarci con provocazioni inutili» e un timido «appellino» all’Idv «a voler favorire una soluzione attraverso una rosa di suoi candidati». I capigruppo Soro e Finocchiaro andavano a perorare la causa dai presidenti di Senato e Camera. Quello di Montecitorio, Gianfranco Fini, faceva propria la loro «preoccupazione»: non per il «blitz» del Pdl nell’aria, quanto piuttosto per la «rigidità dell’Idv». Difatti l’appellino» era già stato rispedito a Uòlter: sul nome di Leoluca Orlando, assai sgradito a Berlusconi e al Pdl, Di Pietro si giocava faccia e l’intera Opa sull’opposizione, ormai pendente dalle sue labbra.

Il fatto. Quarantasettesima votazione per l’elezione del presidente, dopo le prime due a maggioranza dei due terzi, nelle quali il cavallino storno dipietrista perdeva colpi e voti (dai 18 sulla carta a 11 addirittura, nella prima). La maggioranza l’aveva strombazzato ai quattro venti: «Se il Pd non cambia candidato, eleggeremo noi uno diverso da Orlando, e sarà dell’opposizione». Detto, fatto. Allo scrutinio della terza votazione il nome di Villari risuonava 23 volte, quello di Orlando solo 13. Una scheda nulla, tre assenti (Melandri e Milana del Pd, Casoli del Pdl). Sconcerto tra i commissari, anche perché due voti arrivavano da «franchi tiratori» del Pd (la successiva caccia ai traditori conduceva verso ambiti mariniani e/o dalemiani). Il nuovo presidente Villari, 56 anni, epatologo napoletano alla terza legislatura, nonché presidente del Club Napoli Montecitorio (il che non guasta), prendeva la parola. Ma il suo discorso da sommesso che sembrava all’inizio, si caricava via via di significato. «A dir il vero non mi sento nemmeno presidente... », l’esordio. Poi aggiungeva che le sue dimissioni sarebbero state «probabili». Ma anche che la «situazione istituzionale imponeva dei percorsi» e infine, «vista la gravità del momento... ». Più tardi, Veltroni cercava di abbreviare prassi e passi del titubante: «Mi ha telefonato, si dimette», annunciava millantando. La Finocchiaro, di rincalzo: «L’ho chiamato, gli ho detto di dimettersi al più presto». Il deputato Merlo: «Io l’avrei già fatto». Villari, che man mano accettava sempre peggio le pressioni, chiariva che avrebbe incontrato i vertici istituzionali, compreso Napolitano, prima di qualsiasi decisione. E riceveva plausi, auguri e incoraggiamenti da Pdl, Pannella, e Socialisti.
Il fattaccio. Quello che sembrava una semplice rottura della prassi di concedere all’opposizione anche l’indicazione del candidato alla presidenza cominciava a profilarsi come una rotta politica, capace di scuotere la Rai. «Veltroni è uno stratega del menga!», il commento più riferibile di uno dei suoi. Di Pietro andava a schiumare di rabbia nell’emiciclo di Montecitorio, dove paragonava Berlusconi al dittatore argentino che fece il golpe nel ’76: «Caro presidente Videla... lei umilia ogni giorno il Parlamento con colpi di mano che violano ogni regola della democrazia». Non potendo dire di meglio, e di più, anche Veltroni lanciava i suoi strali contro un atto «di arroganza inimmaginabile, qualcosa di mai visto nella storia istituzionale di questo Paese, un imbarbarimento della politica, un tentativo di mettere le mani sulla Rai». Inutile aggiungere che la lezione non serviva a rinsavire, e Uòlter correva a rassicurare Di Pietro: «Il nostro impegno con l’Idv rimane, continueremo a sostenere Orlando, che ha i titoli». Strategia che il responsabile Comunicazione del Pd, componente della Vigilanza, Marco Follini, commentava con gioia ed eleganza: «Ho sempre pensato che l’alleanza con Di Pietro fosse piuttosto onerosa. Chi è causa del suo mal... ».

Il post-fatto. Dallo «strappo istituzionale» per lo scippo della scelta del candidato all’opposizione, il premier Berlusconi si tirava fuori: «Sono estraneo all’elezione di Villari, è una scelta autonoma dei gruppi parlamentari». Nel frattempo, la posizione del nuovo presidente di Vigilanza si consolidava nel trascorrere delle ore, mettendo in fibrillazione il Loft.

Significativi giungevano i commenti di alcuni degli esponenti del Pd più avvertiti. Fabrizio Morri evocava «una soluzione istituzionale, perché la Rai è in una paralisi desolante». Contenuto anche lo sdegno di D’Alema: «È una grave violazione del rispetto dovuto all’opposizione», sbuffava.

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