A Ravenna il ricordo di Mingus

Franco Fayenz

Sono lontani i tempi d’oro dei 2000 spettatori nella Rocca Brancaleone (ma forse ritorneranno). Tuttavia Ravenna Jazz resiste con brillante tenacia ed è approdata alla trentaduesima edizione, scegliendo l’autunno e la nobile e rassicurante sala del Teatro Alighieri. La manifestazione romagnola è una delle più antiche d’Italia. Si è tenuta per la prima volta nel 1974 e non è mai mancata all’appuntamento, nemmeno nei momenti più difficili; quindi, al contrario di altri festival - Umbria Jazz, per non fare nomi - non mette nel conto anche gli anni in cui non ha avuto luogo. Si è svolta in tre giorni con due concerti per sera, e con molte luci e poche ombre. Modesta l’apertura, malgrado il nome illustre del sassofonista Benny Golson, con il quale collabora Joris Teepe, un raro (e abile) esemplare di contrabbassista mancino che nessun conservatorio europeo ammetterebbe. Poi arrivano i grandi applausi per il fisarmonicista Richard Galliano che riesce a proporre, con la sua Tangària, un progetto inedito. Fa un figurone, in trio, il contrabbassista Ben Allison che pochi conoscevano: suona bene e la sua musica ha sapori nuovi, la qual cosa di questi tempi è molto importante.

Infine, ecco i grossi calibri: il quintetto di Dave Holland ripete la bella prova di Milano; la pianista Geri Allen in trio riscuote applausi clamorosi malgrado che l’insigne veterano Dewey Redman, sassofonista ospite, appaia un po’ sbiadito; la Mingus Dynasty consegue l’apoteosi e consegna ai giovani il messaggio indelebile di Charles Mingus.

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