Il re del Nepal capitola: elezioni al più presto

Sul futuro del Paese l’incognita della guerriglia maoista che ora potrebbe rompere la tregua

Maria Grazia Coggiola

da New Delhi

Dopo due settimane di proteste popolari, re Gyanendra alla fine ha ceduto. In un discorso alla nazione ha detto di voler restituire il potere al popolo e ha invitato i partiti politici da lui esautorati a nominare un primo ministro e formare un governo. Non è ancora chiaro se con questo gesto riuscirà a salvare il suo trono. Il principale gruppo politico nepalese ha replicato che «l’offerta non è sufficiente: la protesta andrà avanti».
Il monarca aveva già lanciato un ramoscello di ulivo la scorsa settimana, in occasione del capodanno induista, quando aveva chiesto di andare al voto per eleggere il Parlamento sospeso tre anni fa. Anche questa volta potrebbe essere non sufficiente a fermare quella che è stata soprannominata «Rivoluzione Arancione» nepalese. Si vedrà probabilmente solo oggi quale sarà la reazione dell’alleanza dei sette partiti che hanno guidato la battaglia di Katmandu e soprattutto quella della guerriglia maoista. I ribelli, che da un decennio si battono per il rovesciamento della monarchia, avevano siglato lo scorso dicembre un’intesa con i movimenti politici nell’obiettivo comune di convocare un’assemblea costituente per dare una nuovo sistema politico al piccolo regno himalayano. In cambio i maoisti, che controllano un terzo del Paese, avevano dichiarato di osservare un cessate il fuoco nella capitale. Se venisse accettata l’offerta del monarca, questo patto rischierebbe di saltare e i maoisti ritornerebbero sul sentiero di guerra. Come oltre un anno fa quando re Gyanendra silurò un primo ministro da lui nominato per «incapacità» di avviare un dialogo con la guerriglia comunista.
In un discorso televisivo, ieri pomeriggio, il monarca, in giacca nera e indossando il tipico copricapo nepalese, ha detto «di aver seguito la tradizione della dinastia reale degli Shah» che è quella di «governare nel rispetto della volontà popolare, nell’interesse della nazione e del popolo e in osservanza con le regole della monarchia costituzionale e della democrazia multipartitica». È stata una rivolta popolare nel 1990 a costringere re Birendra, fratello dell’attuale monarca massacrato assieme alla regina e alla famiglia reale nell’orrenda strage di palazzo del 2001, ad abbandonare l’assolutismo monarchico.
Dopo l’ondata di massicce dimostrazioni, iniziate lo scorso 6 aprile e culminate giovedì con un corteo di 10mila manifestanti pronti a marciare sul palazzo reale, per re Gyanendra non restavano altre vie di uscita praticabili. Per i metodi repressivi, gli arresti arbitrari di centinaia di persone, il linciaggio di giornalisti, insegnanti, avvocati e intellettuali, i continui coprifuoco con l’ordine di sparare a vista, si era attirato le critiche di tutta la comunità internazionale, Stati Uniti compresi. L’ambasciatore americano a Katmandu si era augurato di «non vedere prima o poi il monarca fuggire dal suo regno appeso a un elicottero». Le Nazioni Unite avevano duramente condannato la svolta autoritaria in una riunione convocata a Ginevra su iniziativa della diplomazia elvetica. Ma la pressione maggiore è forse arrivata dall’India. Giovedì scorso il governo di New Delhi ha inviato a Katmandu un mediatore per incontrare il monarca e convincerlo a disinnescare la crisi prima che fosse troppo tardi. Il diplomatico Karan Singh, discendente dei maharaja del Kashmir e imparentato attraverso la moglie con la casa reale nepalese, aveva annunciato ieri che «la palla era nelle mani del re» e che «presto avrebbe fatto un annuncio».
Nei circoli diplomatici, ieri a New Delhi, si respirava già un clima di soddisfazione. L’India, che nei mesi scorsi ha sospeso le forniture militari, ha esercitato la sua influenza da «grande fratello» cercando di scongiurare un ulteriore focolaio di tensione nella regione sud-asiatica dopo le brutte notizie giunte dallo Sri Lanka dove sono saltati i colloqui con i ribelli delle Tigri Tamil. Un’altra grave fonte di apprensione è la crescente influenza dei gruppi armati maoisti indiani attivi in metà del subcontinente indiano. A New Delhi interessa quindi più che mai che a Katmandu ci sia un governo stabile in grado di far fronte alla guerriglia. Era stato anche il presidente americano George W.

Bush, durante la sua visita di marzo, a evocare la crisi nepalese come una fonte di instabilità per la regione, soprattutto se si pensa alla crescente influenza della Cina. Dopo «il golpe reale» del primo febbraio del 2005, era stata Pechino a correre in aiuto del monarca promettendogli sostegno politico e anche forniture militari.

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