La redazione si rimette l'eskimo

L'ex direttore del Corriere della sera rievoca la "secessione montanelliana" scambiando quello che fu un atto di indipendenza per un complotto politico. Il Giornale nacque come reazione allo spostamento a sinistra del Corrierone

La redazione si rimette l'eskimo

Un articolo - tra i molti che La Repubblica ha dedicato ieri, giustamente, alla scomparsa di Carlo Caracciolo - esige a mio avviso qualche precisazione. La esige per il tono, e la esige per il contenuto. Il fatto che Piero Ottone abbia voluto portare il suo contributo di memoria, di riflessioni, anche di commozione al ricordo collettivo del principe editore è del tutto normale. Meno normale mi è parsa la malignità polemica d’alcune notazioni che - è un’opinione personale - sarebbero state fuori luogo in ogni circostanza, e a maggior ragione lo sono nell’incombere d’un lutto.

Avrei volentieri evitato di tornare, un’ennesima volta, su avvenimenti del passato remoto, mio e di Ottone. Rischiamo di sembrare vecchi reduci rancorosi, che non riescono a liberarsi delle loro ossessioni. Ma non posso lasciar passare sotto silenzio la versione che Ottone dà di avvenimenti risalenti a quando lui era direttore del Corriere della Sera e io ero tra le firme del Corriere - Franco di Bella le definì «la gioielleria di famiglia» - che si apprestavano a seguire Indro Montanelli nell’avventura del Giornale.

Scrive Ottone: «A un certo momento, nel 1974, le grandi manovre contro la libertà del Corriere portarono all’esodo di tanti colleghi che preferirono trasmigrare in un nuovo giornale, nato con l’appoggio politico e finanziario di Fanfani e di Cefis». Per la cronaca sarebbe stato utile aggiungere, tra i nomi citati, anche quello di Indro Montanelli, che nella nascita del Giornale non ebbe un ruolo minore. Mi spiace che per l’occasione Piero Ottone sia incorso nella stessa dimenticanza di cui soffrì il titolo del Corriere quando Montanelli fu gambizzato dai brigatisti rossi. Il titolo accennò genericamente a un giornalista. Altrettanto genericamente Ottone si riferisce adesso a «tanti colleghi».

Non è questo né il luogo né il momento adatto per ricapitolare i termini del dissenso di noi transfughi nei confronti d’un quotidiano che avevamo molto amato. Ma è offensivo lasciar intendere - come Ottone fa - che Montanelli e chi insieme a lui aveva voluto staccarsi da un Corriere nel quale non si riconosceva più venga associato a una sorta di losco complotto. Ordito dai soliti poteri forti e deviati. Avremmo voluto minacciare la libertà del Corriere, e non preservare la libertà di stampa, e dunque anche del Corriere, da un tentativo d’omogeneizzazione conformista nel nome del politicamente corretto. Non pretendo che Ottone sia d’accordo: ma secondo me la nascita del Giornale fu d’immenso beneficio anche per il Corriere e per i suoi lettori: perché lo costrinse a correggere la rotta, a riprendere - o almeno tentare di riprendere - la sua funzione di foglio della Milano illuminata, aperta, generosa, non settaria.

M’interessa poco di ricostruire gli appoggi di Fanfani e di Cefis. So che quando andammo in edicola, tra grandinanti accuse di fascismo, avemmo l’appoggio di italiani per bene. Li ho visti con i miei occhi, quegli italiani, quando abbiamo organizzato raccolte di fondi per calamità nazionali. Erano la «brava gente». Venivano a portare pochi soldi e tanto cuore. E nessun miliardario si metteva in coda.
Dunque Ottone sostiene che volemmo insidiare - Montanelli alla nostra testa - la libertà del Corriere. Ma non gli basta. Riserba a noi che ce ne andammo un accenno sprezzante, attribuendolo a chi non c’è più né per confermare né per smentire (ma credo nella genuinità della citazione). «Carlo (Caracciolo) seguiva l’episodio (della scissione, nda) con tranquillità e anche con una punta di divertimento. Sei fortunato, mi diceva, ti liberi di tanta gente. Farai un giornale ancora migliore». Al tempo non ho avuto l’impressione che Piero Ottone fosse proprio ansioso di liberarsi di «tanta gente». Nell’ultimo incontro che avemmo prima che passassi al Giornale insistette con molta amicizia - e gliene sono ancora oggi grato - perché ci ripensassi: promettendomi, se l’avessi fatto, collocazioni professionali prestigiose.

Avverto un po’ di disagio indugiando in maniera pettegola su vicende lontane dalle quali sia Ottone sia io dovremmo sentirci - anzitutto per motivi anagrafici - molto distaccati. Ma Piero mi ha portato sui questo terreno, e ho ritenuto di dover intervenire non per difendere me stesso (lo eviterei volentieri) ma per difendere i propositi, gli ideali, le speranze che il mio amico Indro aveva quando ,con dolore, rinnegò quel Corriere che era stato la sua vita. Si può ritenere che avesse torto.

Ma non si può e non si deve immeschinirlo, presentandolo come un propagandista degli interessi politici di Fanfani ed economici di Cefis. Il resto - ossia le osservazioni dedicate in quello stesso articolo a Silvio Berlusconi - non mi interessa.

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