"Repubblica" spara sul premier per coprire i guai dell’Ingegnere

Dietro l’ultima crociata contro il Cavaliere, il declino dell’editore De Benedetti: isolato in politica, sconfitto nei salotti della finanza, mollato pure dai fedelissimi

"Repubblica" spara sul premier per coprire i guai dell’Ingegnere

Contro Silvio Berlusconi si usa una mancanza di gusto che stupisce anche in quotidiani e settimanali come La Repubblica e L’Espresso abituati a picchiare duro. Si era discusso in quel gruppo sul posizionamento dei media della casa. Carlo De Benedetti aveva fatto trapelare l’intenzione di una linea più autorevole, di opposizione ma con un profilo alto. Ezio Mauro dava per scontata la partenza, peraltro dopo circa dieci anni di onorato lavoro. Giuseppe D’Avanzo, abbandonato dagli alti contatti negli apparati dello Stato che ne avevano fatto una star dell’informazione giudiziaria, aveva prima tentato di guidare la svolta pacificatrice (raccontando pasticci vacanzieri di Marco Travaglio con persone poi risultate colluse con la mafia), poi, quando aveva compreso che non era su di lui che si puntava, aveva cercato già nel luglio del 2008 di lanciare la campagna per la delegittimazione di Berlusconi cercando di usare le registrazioni di telefonate collegate a procedimenti contro Agostino Saccà e Luigi Crespi. Il quotidiano di Largo Fochetti aveva tenuto sulla tentata operazione di D’Avanzo (che prometteva coordinamenti con il Corriere della Sera che non ci furono) una linea cauta. Anche in considerazione della possibile svolta verso l’autorevolezza.
Come mai da queste aspirazioni si arriva al festival di mutanda pazza? Senza dubbio pesano i problemi editoriali: la svolta «autorevole» l’ha fatta il Corriere della Sera e il suo posizionamento crea problemi strategici a Largo Fochetti. E in una fase difficile per tirature e pubblicità sventolare mutande conquista (sul momento) copie. Però un pur autorevole Mauro non decide da solo di condurre una campagna di questo tipo in cui fatti limitati e sostanzialmente privati vengono gonfiati con tutte le volgarità possibili. Qualcosa deve essere passato per la testa di un editore che sino a qualche minuto prima pensava a un dibattito in frac, e si trova ora a strillonare l’ultimo grido di qualche prostituta. La svolta del «gruppo» avviene in una fase di duro declino per De Benedetti. Prima ha tentato di separare le attività editoriali dalle industriali del gruppo Cir, infastidito dal figlio Rodolfo che lo critica per le sue scarse attitudini industriali (a cui in questo periodo si sono assommate anche assai insoddisfacenti speculazioni finanziarie di cui pure il vecchio De Benedetti era maestro), ma viene bloccato da fondi presenti nell’azionariato Cir che non ci stanno a caricarsi rischi per risolvere problemi di famiglia. E così i piani vengono dismessi e si cerca una nuova via. Che si presenta drammaticamente con le dimissioni da tutti gli incarichi di De Benedetti, e poi viene corretta in modi poco chiari, in dimissioni da tutto tranne che dal ruolo di «king maker» del gruppo Repubblica-Espresso. Intanto, ed è cosa di questi giorni, va in crisi il gioiellino Management & capitali, finanziaria di promozione di imprese che De Benedetti si era costruito (in un primo tempo anche in dialogo con Berlusconi) per dimostrare a una Confindustria che lo aveva tenuto fuori dagli organi dirigenti (durante gli strascichi del torbido caso Banco Ambrosiano) di che pasta era fatto. Anche in questo caso la liquidazione di M&C avviene in rottura con un socio fondamentale, Gianni Tamburi, che ritiene il prezzo fissato da De Benedetti (più storici alleati della famiglia Segre) basso: naturalmente opa e contro-opa sono una benedizione per gli azionisti, ma la rottura con Tamburi è un’altra prova che il tocco magico debenedettiano sulle questioni di finanza si è perso.
È questo il quadro di un uomo che ha a lungo coltivato l’idea di essere perno della nuova Italia: arrivando a proclamarsi tessera numero 1 del Partito democratico, essendo quello che faceva e disfaceva i leader della sinistra. Prevedendo per sé un ruolo non più da outsider ma «centrale». Da qui anche l’idea di una svolta moderata della sua stampa. E ora De Benedetti si vede malmesso economicamente e poco influente politicamente (anche nel dibattito sul Pd i Sergio Romano e i Michele Salvati stanno diventando più «pesanti» del suo bolso Eugenio Scalfari).

In un’Italia che sta mettendo a posto molte cose ma che è ancora instabile, alcune persone anziane già protagoniste e ora sulla via del tramonto, che, invece di aiutare a conciliare la società, creano sconquassi per compensare le proprie frustrazioni e distruggere quel che non possono essere loro a costruire, hanno un peso consistente. Molto delle macerie che ingombrano questa nostra seconda Repubblica sono state prodotte da tipi così, come Oscar Luigi Scalfaro. De Benedetti ha l’aria di avere scelto questa strada.

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