Doveva essere il mondiale delle armate sudamericane e invece, una alla volta, prima il Brasile e poi l’Argentina, sono uscite di scena tra pianti a dirotto e psico-drammi collettivi. È rimasto tra le prime quattro regine del torneo l’Uruguay del maestro Tabarez, un silenzioso condottiero, inatteso come un imbucato al pranzo di nozze. Le altre tre provengono dalla vecchia, cara Europa, espressione dei tornei che hanno monopolizzato l’interesse di tv e mecenati di mezzo mondo.
Doveva essere il mondiale dei ct di gran nome e di provata carriera e invece il loro è stato un fallimento unico, a cominciare da Marcello Lippi, campione in carica per finire a Diego Armando Maradona che aveva aperto il cuore dell’Argentina alla speranza di una nuova impresa, dopo quella realizzata, da solo, sul campo, a Città del Messico. A Dunga han dato dell’asino, a Capello hanno rivolto l’accusa più feroce, aver spedito in Sudafrica il fratello incompetente, il viareggino viene inseguito da insulti e domande maliziose ovunque attracchi col suo motoscafo. E invece hanno preso a marciare petto in fuori verso Johannesburg, contro ogni pronostico, il ct col maglione color glicine, il tedesco Loew e un olandese dal cognome impossibile, il saggio Del Bosque, sembra il fratello gemello di Silvano Ramaccioni.
Doveva essere il mondiale delle grandi stelle e invece, una ad una, si sono spente nel firmamento del mondiale senza regalarci nemmeno una magia. Messi per esempio: ha pagato il passaggio dagli slalom indisturbati nella Liga agli agguati feroci della concorrenza. Oppure Kakà segnato dalla pubalgia e dall’anno orribile con il Real Madrid. O ancora Cristiano Ronaldo a cui non è riuscita una sola impresa balistica delle sue. E invece è spuntata la testolina preziosa del piccolo Sneijder oltre che il piede vellutato di David Villa, mentre Muller ha incantato, simbolo dell’entusiasmo della nuova Germania multietnica.
Doveva essere il mondiale del calcio africano, finalmente capace di esprimere il proprio potenziale, sospinto dalla simpatia di Nelson Mandela e sostenuto dall’appoggio vistoso di Blatter, suo decisivo padrino nell’assegnazione del torneo e invece ha segnalato, per l’ennesima volta, l’errore strategico di improvvisare le spedizioni affidandone la cura, provvisoria, a qualche vecchio trombone (tipo Eriksson con la Costa d’Avorio) finito ai giardini pubblici a sfogliare l’album dei ricordi. «Un giorno una squadra africana vincerà il mondiale» il pronostico del leader anti-apartheid ricevendo gli esponenti del Ghana. Magari quel giorno non avrà un serbo in panchina ma un tecnico africano allevato nel calcio europeo.
Doveva essere il mondiale che metteva in soffitta gli errori e gli sfondoni degli arbitri, magari strizzando l’occhio ai tanti monitor accesi dinanzi al quarto uomo e invece abbiamo visto il colonnello svizzero barcollare dinanzi ai colpi inferti alla credibilità collettiva del sistema, nella speranza di una conversione futura. Doveva essere un certo mondiale, ne abbiamo scoperto un altro. E forse il suo irresistibile fascino è tutto qui.
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