Alla ricerca delle «Radici» scomparse

Penultimo appuntamento di «Pre-visioni», la rassegna che presenta i lavori dei migliori registi del corso: ora è la volta di Laura Casati con un testo di Arnold Wesker

Matteo Failla

Il sottotitolo della rassegna Pre-visioni - che porta in scena i cinque registi diplomandi del terzo della «Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi» – è Si salvi chi può. Chi può si salvi. Per dovere di cronaca sarà bene sottolineare che i primi tre aspiranti registi sono riusciti egregiamente nell’impresa del proprio salvataggio: ora toccherà loro nuotare in un oceano ricco di insidie ed imprevisti; ma anche di soddisfazioni. Eppure i «pesci allevati» dalla Paolo Grassi in questi tre anni, pronti ad essere rilasciati, non sono ancora finiti: questa sera e fino a lunedì sarà la volta della penultima diplomanda, Laura Casati, che porterà in scena il proprio lavoro: Radici, di Arnold Wesker, il secondo dei testi (1958) della trilogia che donò notorietà all’artista inglese.
La scelta del testo, che porta a galla scontri tra generazioni e tra donne, ha un fondamento autobiografico?
«Assolutamente no – spiega Laura Casati –, ho scelto questo testo perché sono stata stregata dalla protagonista femminile Beatie, e di certo non per riferimenti autobiografici. Il conflitto generazionale che esprime con le sue parole e le sue azioni è parte di un percorso umano che può compiere qualsiasi giovane ragazza alla ricerca del proprio linguaggio, che ha voglia di esprimersi ma non sempre gode degli strumenti necessari per farlo. È una giovane che vive in bilico tra l’attrazione per un mondo dai contorni indefiniti, che l’affascina e che vorrebbe conoscere ardentemente, e il desiderio di mantenere intatto quel suo piccolo “pianeta domestico” fatto di emozioni familiari, più intime».
La scrittura di Radici è a metà tra testo teatrale e cinematografico-televisivo: come si può far convivere questo binomio?
«Ho mantenuta intatta questa caratteristica, posizionando gli attori in due set cinematografici distinti che ricostruiscono due cucine: in mezzo vi è invece uno spazio libero, decisamente più teatrale. La messa in scena gioca molto sul doppio “testo teatrale-sceneggiatura”, soprattutto nel linguaggio che è spesso preso in prestito dal cinema, ed ho inserito anche riferimenti al teatro italiano di Eduardo o ai montaggi che appartengono ai nostri anni ’50 e ’60: mi sono servita anche del Carosello».
Ovviamente i riferimenti politici di Wesker sono scomparsi?
«Certo, ho lasciato posto solo al concetto di “licenziamento” e al ruolo dei sindacati: ciò che ho messo in rilievo nel mio Radici è un conflitto generazionale avulso da riferimenti alla politica di quegli anni».
In teatro si sentono veri profumi di zuppa e pane sfornato provenire dalle cucine di scena: perché questa scelta?
«Gli odori hanno un duplice ruolo: sono serviti nella fase di preparazione per indurre gli attori a “vivere la storia” e a costruire una memoria da mantenere nell’allestimento. Ma è anche un modo per giocare con il pubblico in sala, che sarà più coinvolto anche grazie agli odori.

E la sera del debutto, dopo lo spettacolo, potrà gustare la zuppa di zucchine e menta preparata dallo chef Marco Bizzozzero, allievo di Gualtiero Marchesi, e gustare il pane di Nonna Grazie, parente di una delle attrici».

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