Rifondazione: non ci teme più nessuno

Giordano: testo pessimo, verifica a gennaio. Ma la base non accetta l’ennesimo sì «forzato»

da Roma

Dopo lo schiaffone del governo, è un sorriso assai mesto quello tra Fausto Bertinotti e Franco Giordano all’ingresso dell’aula di Montecitorio. Abbraccio di solidarietà, come di fronte a un lutto: «Siamo nelle tue mani, Franco», sussurra il presidente della Camera. Toccherà al segretario rifondatore arrampicarsi sugli specchi. «Voteremo sì per un vincolo sociale - si affanna a spiegare Giordano - ma il vincolo politico non esiste più». Che vuol dire? «Che a gennaio andrà tutto ricontrattato in una verifica, altrimenti non ci stiamo più a votare nulla. Si parte dalla precarietà, dal rapporto pace guerra, dai diritti civili. Fino ad allora, siamo liberi...».
Liberi è una parola grossa. Attanagliata dalla palude governativa, Rifondazione inghiotte il rospo più indigesto e, come ghigna la minoranza interna, sono in tanti a brindare. «A corso Italia, sede della Cgil, hanno già stappato lo spumante», sorride amaro Salvatore Cannavò, leader dei trotzkisti. È fallita la sfida di permeare il governo, ma tra i dirigenti l’autocritica è ancora un tabù. Giordano volta le spalle quando sente parlare di azzardo nei confronti del sindacato, il capogruppo Gennaro Migliore non demorde: «È il sindacato ad aver sbagliato, noi abbiamo rispettato il risultato del referendum, loro non hanno rispettato il lavoro parlamentare in commissione. Ora dovrà aprirsi una discussione dentro la Cgil: provino ad andarci, nelle fabbriche. Noi possiamo farlo a testa alta...». Ma i capi degli obtorto collo rifondatori sono per ora piuttosto chini. «Ha vinto Confindustria, il governo ha scelto di aprire una lacerazione profonda con il popolo che l’ha votato»: le giustificazioni non consolano i deputati contrari a votare la fiducia. I due fronti si sono misurati in una riunione lampo del gruppo: 25 pronti a «mangiare ’sta minestra», dieci a gettarsi dalla finestra assieme al governo Prodi. Cinque assenti, ma giusto per non dire di «no». Anche esponenti della maggioranza bertinottiana hanno votato contro, come Ramon Mantovani: «È un crimine sociale, ma ora mi atterrò alla decisione della maggioranza». Del diman non v’è certezza: anzi, Mantovani rifiuta persino di sentirne parlare. «Il testo è pessimo», ammette Giordano. I peones non capiscono come si possa, per l’ennesima volta, annunciare il «sì per l’ultima volta». «Prodi teme tre diniani e non i nostri settanta...» dicono sconsolati. Il programma di governo è ormai «archeologia industriale, è al museo delle cere», ripetono Giordano e Migliore. Ma il sentimento comune è che sia fallita l’intera strategia di partito «di lotta e di governo». E la permanenza dell’unico ministro, Paolo Ferrero, non sembra neppure più una scelta politica.

Piuttosto un modo per tenerlo lontano dal partito, e scongiurare che possa catalizzare il malcontento della base, minacciando la segreteria di Giordano al prossimo congresso. L’ultima carta da giocare resta così la Cosa rossa, ma c’è chi sospetta che oggi «anche Mussi stia brindando».

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