RIFONDAZIONE POLISTA

Diciamoci subito quel che non è vero. Non è vero, ad esempio, che le elezioni amministrative in Italia non hanno una valenza politica. L'hanno al punto che il sindaco di Roma è uno dei cinque o sei più importanti leader nazionali, che quello di Napoli è una figura storica della Prima Repubblica, che quello eletto a Milano è stato per cinque anni ministro dell'Istruzione, così come ministro per cinque anni è stato anche Altero Matteoli, vincitore nella piccola Orbetello. Non è vero che si vota solo per un amministratore capace di far funzionare i tram o pensando che la scelta non vada oltre l'ambito cittadino. Tutti sanno che, in passato, maggioranze hanno fibrillato anche per molto meno, che si sono dimessi presidenti del Consiglio o che sono cambiate strategie e alleanze. Non è vero quindi che Berlusconi abbia sbagliato a dare un senso politico all'ultimo appuntamento con le urne. Se una parte dell'elettorato della Casa delle libertà è rimasta in sonno, un'altra parte è probabilmente andata al seggio proprio perché c'era un richiamo più importante.
Non è vero, infine, che il centrodestra è uno schieramento in disarmo. Il suo blocco sociale esiste sia nel Nord che in Sicilia. Non si è perso. Cinque anni fa, in questi stessi giorni, la sinistra era a pezzi e lacerata dopo cinque anni di governo, non vedeva né un presente né un futuro, sapeva solo gridare all'avvento dell'anti-democrazia. Oggi la Casa delle libertà ha ritrovato la metà dell'Italia che rappresenta e non è stata schiacciata dall'Unione, che ha cominciato ad esercitare fin da subito, e compatta, una ferrea dittatura della maggioranza e che ha esplicitamente scommesso su Milano e sulla Sicilia per chiudere la partita. C'è stata la conferma del pareggio del mese scorso. A questo punto però, diciamoci quel che è vero. Innanzitutto è vero che se l'attesa era quella della rivincita, capace di togliere sicurezza al centrosinistra, il traguardo non è stato raggiunto. Così come è vero che perfino un risultato più favorevole non avrebbe automaticamente aperto falle nella coalizione prodiana. Come non è neanche sicuro che accada se vincerà il sì nel referendum costituzionale. È poi vero che la Casa delle libertà non poteva sperare di ovviare d'incanto al suo difetto di non essere concorrenziale con l'Unione e con la sua capacità di scambio sociale nel governo delle città. È vero che un'alleanza, nata e consolidatasi per essere forza di governo e di cambiamento, ha una seria difficoltà a misurarsi con il suo status di opposizione: opposizione significa organizzazione del consenso, capacità di mobilitazione non affidata solo alle leadership, insediamento costante nella società e negli infiniti meandri in cui si è articolata, proposta costante di valori e mediazione degli interessi.
È vero allora che c'è il grande problema di far pesare il consenso di mezza Italia, di dare un senso ai voti ricevuti, di dimostrare di saperli utilizzare al meglio. È quindi soprattutto vero, come ha scritto ieri questo giornale, che c'è «un Polo da rifare» per preservare il patrimonio accumulato in cinque anni e consolidato dalla straordinaria campagna elettorale di Berlusconi.

Non c'è da spendere troppe parole sulla invenzione di un partito che svolga questo compito, che sostenga le leadership, che dia continuità ad una politica e che stabilizzi il rapporto con la società. È questo un tema aperto da tempo. Ma è vero, infine, che il rischio da evitare è di trovarsi disarmati di fronte ad una seconda «traversata del deserto» e che l'unica sicurezza è l'organizzazione dell'opposizione.

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