Riformismo senza riforme

Riuscirà il governo a stupirci come ha chiesto Romano Prodi? Non pare proprio. Sarà anche un esecutivo di «professionisti» capaci di destreggiarsi: ma il solco del suo operare sembra segnato. Il centrosinistra avrebbe potuto godere di qualche chance, se avesse sfondato a destra e acquisito le basi sociali necessarie per tartassare i ceti medi, acquisendo così le risorse per un compromesso tra grande impresa e lavoro dipendente protetto dalla Cgil. Questo compromesso avrebbe potuto sostenere una guida del Paese che tenesse insieme Ulivo e Rifondazione, e fosse appoggiato dal piccolo establishment e dalla sua stampa. Il voto del 9 e 10 aprile, come dimostra l’atteggiamento di Luca Cordero di Montezemolo (svillaneggiato da Eugenio Scalfari, domenica su Repubblica), non dà, invece, spazi al mondo delle imprese per compromessi sulla testa di ceti medi e piccola industria.
Quel che resta per dare dignità a una politica nazionale è poco: al ministero dell’Economia c’è un eccellente tecnico che rappresenta, però, la Commissione europea nell’esecutivo, invece che viceversa come succedeva con Giulio Tremonti, che a Bruxelles ha collezionato numerosi successi politici. Il Corriere della Sera, a difesa di Tommaso Padoa-Schioppa, spiega con un editoriale di Mario Monti come il complesso e burocratico formarsi delle decisioni dell’Unione sia altrettanto democratico di quello dei Parlamenti nazionali. Ma è duro convincere qualcuno con questi argomenti. Ed è altrettanto difficile mettere insieme uno straccio di politica economica che abbia un senso: a parte l’eseguire i diktat di Bruxelles. Che il centrosinistra abbia una sola cartuccia, quella del compromesso tra lavoratori «garantiti» e grande impresa, si comprende bene dall’affannarsi di un ministro del Lavoro, peraltro equilibrato, come Cesare Damiano, tutto teso a costruire le basi per l’unica politica economica possibile per una coalizione così scombiccherata come quella prodiana. Se non avesse questa urgenza, non si capirebbe perché Damiano si ostini a chiedere il superamento dello scalone per le pensioni di vecchiaia (da 60 a 65 anni) che scatterà nel 2008. Perché mettere le mani in un provvedimento già approvato dal fronte avversario (a cui dare tutte le colpe), che porterà quattromila miliardi all’anno nelle casse dello Stato, che ha consentito la benevolenza di Bruxelles? Perché è l’unico modo rimasto per dare una mano a Guglielmo Epifani nel suo sindacato, separando gli operai cinquantenni (il cuore della Cgil) dai giovani che danno fastidio sulla flessibilità e guadagnando posizioni sui «duri» che dominano le organizzazioni più importanti (metalmeccanici, pubblico impiego, scuola e pensionati). E d’altra parte è anche il modo per venire incontro alla Fiat che richiede con urgenza prepensionamenti, consentendo di rimandare così per un qualche tempo tagli ai cunei fiscali e riduzioni all’Irap. È una scelta di politica economica antinazionale, fatta con il pragmatismo di un riformismo senza riforme, mirata solo a mantenere un minimo di coesione nell’alleanza fondamentale (Cgil-piccolo establishment) che tiene in piedi la coalizione.

Così a occhio, quest’ultima disperata manovra non riuscirà: la Cgil riprenderà la sua libertà di manovra, Montezemolo, se vorrà parlare ancora a qualche convegno confindustriale, dovrà seguire la base: non si risolveranno i nodi di una politica bloccata, che doveva essere affrontata con qualche intesa di fondo dopo il «pareggio» del 9 e 10 aprile ed è invece stata gestita con l’arroganza dei «professionisti» di Prodi (di Piero Fassino, di Francesco Rutelli e così via).

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