Ripercorrere la storia di Roma seguendo i «segni» delle piene

«Il Tevere inondò la città con una violenza maggiore di quella dell’anno precedente e abbatté due ponti e molti edifici, soprattutto nella zona di porta Flumentana. Un macigno di enormi dimensioni, staccatosi o per le piogge o per un terremoto troppo lieve per essere avvertito anche altrove, cadde dal Campidoglio nel quartiere Iugario e uccise molte persone». Così Tito Livio nella «Storia di Roma dalla sua fondazione» descrive la piena del 192 a.C., una delle tante che colpirono Roma fino al Novecento.
L’autunno capitolino, noto per le sue «ottobrate», non è fatto solo di miti giornate di sole, ma anche di intense piogge, che, nel corso dei secoli, causando alluvioni e allagamenti, hanno profondamente segnato il profilo dell’Urbe. È proprio seguendo quei «segni» che si può ripercorrere la storia - bagnata - della città. Di piena in piena. Tra mito, storia e urbanistica, sono molte le tracce lasciate dal Tevere a ricordo - o monito - della sua irruenza. Basta passeggiare per le vie del centro per scoprirle. In un ideale «tour» delle piene, la prima tappa non può che essere la Cloaca Massima, uno dei più antichi condotti fognari della città, costruito nel VI secolo a.C.. Realizzate per bonificare il territorio, le cloache defluivano nel Tevere, facilitando, in caso di pioggia, l’uscita del fiume dal suo letto attraverso i condotti, con conseguenti inondazioni. A ciò va aggiunta la presenza di ponti che ostacolavano la corrente, costringendola, quando s’ingrossava, a trovare sbocchi alternativi. Tra questi, il più significativo è ponte Sisto, costruito tra il 1473 e il 1479, sul sito dell’antico ponte di Agrippa, del quale qui fu rinvenuto un frammento con i segni di un idrometro. La funzione storica di controllore fu garantita al nuovo ponte dalla realizzazione di un apposito foro, detto «occhialone»: quando le acque lo attraversavano si annunciava la piena. D’epoca romana l’ampliamento del letto del fiume voluto da Augusto, la creazione del canale di Fiumicino con Traiano e le mura Aureliane, alle quali era affidato il compito di difendere la città. Anche dal fiume. Nel medioevo il problema delle piene si aggravò a causa dell’istallazione di mulini che, spesso, rompevano gli ancoraggi e andavano a «chiudere» i fornici dei ponti. A ricordo delle piene più significative, dal 1200 in città furono affisse lapidi in marmo dette «manine», perché, a volte, vi compariva l’immagine di una mano ad indicare il punto in cui era arrivata l’acqua. La più antica risale al 1277 ed è all’Arco de’Banchi. Nessuna targa, invece, per la tragica piena del 1345, durata cinque giorni, descritta dall’Anonimo Romano: «Nella citate de Roma crebbe lo fiume lo quale se dice Tevere, e fu per sio crescere de acqua uno diluvio mortifero». L’acqua «empiò tutta la pianura», risparmiando solo i colli. Alluvioni e piene sono registrate a lungotevere Marzio, sull’unica rimasta delle colonne del Porto di Ripetta, oggi poco distante dall’idrometro ottocentesco a San Rocco. Nei secoli la fantasia dei romani decorò le lapidi con vascelli e onde tempestose, come quelle che si possono vedere a Santa Maria sopra Minerva: sei, dal 1422 al 1870. La piena che vanta il maggior numero di targhe, ben 46, è del 1870.

Per risolvere definitivamente il problema delle esondazioni del Tevere, nel 1871 fu decisa la costruzione dei muraglioni, terminata nel 1926. L’ultima piena risale al 1937: è indicata all’Isola Tiberina e a Ripa Grande.

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