Presero lo studio in un ex pastificio nel quartiere popolare di San Lorenzo in Roma, e non fu subito «scuola» e neppure «tendenza». Erano giovani, reduci del clima un po ribelle e un po trasgressivo del 1977 (il cosiddetto «post-sessantotto») e questo bastava. Cercavano di esprimersi malgrado il disordine corrente nel costume e nelle arti. Achille Bonito Oliva, noto artificiere del gusto corrente, li mise allora tutti assieme in una mostra titolata «Ateliers» (1986) avvalendosi del fascino ambientale, per metà loft newyorkese e per metà periferia industriale romanesca. Ebbero successo professionale.
Adesso, più o meno cinquantenni, si sono incontrati di nuovo. Nellambìto spazio dellAccademia di Francia a Roma (Villa Medici, fino al 20 dicembre) «i sei di San Lorenzo» (Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Nunzio, Piero Pizzi Cannella, Marco Tirelli) fanno un rapido bilancio della loro esperienza artistica.
Vediamo. Eredità evidente della lezione di Toti Scialoja (romanissimo poeta-pittore, prima espressionista tonale «alla Mafai», poi passato al gusto dellespressionismo astratto americano) le espressioni formali dei «sei» sono molto distanti luna dallaltra, e pure hanno una comune radice espressiva. Frammentismo simbolico e variopinto in Ceccobelli, astrazione lirica in Dessì, senso dellideogramma in Gallo, scultura-luce in Nunzio, matericità dellimmagine in Pizzi Cannella, formalismo geometrico in Tirelli, testimoniano di unaccorta commistione estetica tra le varie tecniche di «avanguardia» che hanno segnato il corso delle arti a Roma nellultimo mezzo secolo: prima gli astratti di Forma Uno (Turcato, Perilli, Dorazio, Accardi, eccetera), poi gli esegeti di una scrittura-pittura (Novelli, Baruchello), poi di un espressionismo esistenziale sconfinante in arte «povera» (la non dimenticata Marisa Busanel e il fin troppo noto Jannis Kounellis) e infine i campioni della vicenda approssimativamente detta «pop» (Pascali, Ceroli, Schifano, Angeli, Festa).
Amanti della tattilità, dellimmagine confezionata, del dialogo accurato con le poetiche darte contemporanea, «i sei di San Lorenzo» sono anche in qualche modo parenti dei più rumorosi e fortunati protagonisti della (fu) «transavanguardia». E però la loro espressività è assai lontana dallassordante e fredda esperienza cui si sobbarcò più o meno allegramente la generazione di chi, alla fine degli anni Settanta, decise a tavolino di «tornare alla pittura» dopo anni di terrorismo antiartistico (i vari Chia, Clemente, Cucchi eccetera). Nel caso del gruppo di San Lorenzo si avverte infatti una maggiore sensibilità per i «valori formali», come se il manufatto della pittura e della scultura meriti ben altro rispetto che lessere ridotto a effimero episodio del «comportamento artistico».
Meno trasgressivi, più professionali e accademici, nonché vagamente nostalgici dell«aura perduta» nellarte visiva, i «magnifici sei» testimoniano così un significativo passaggio di generazione e di gusto, che stempera lansia distruttiva in una sorta di «nichilismo ben temperato», e variamente modulato: il che è sempre buon viatico per chi cerca la strada dellarte e della poesia.
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