Il ritorno dei «magnifici sei» alchimisti delle avanguardie

Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Nunzio, Piero Pizzi Cannella, Marco Tirelli di nuovo riuniti dopo la mostra «Ateliers» del 1986

Presero lo studio in un ex pastificio nel quartiere popolare di San Lorenzo in Roma, e non fu subito «scuola» e neppure «tendenza». Erano giovani, reduci del clima un po’ ribelle e un po’ trasgressivo del 1977 (il cosiddetto «post-sessantotto») e questo bastava. Cercavano di esprimersi malgrado il disordine corrente nel costume e nelle arti. Achille Bonito Oliva, noto artificiere del gusto corrente, li mise allora tutti assieme in una mostra titolata «Ateliers» (1986) avvalendosi del fascino ambientale, per metà loft newyorkese e per metà periferia industriale romanesca. Ebbero successo professionale.
Adesso, più o meno cinquantenni, si sono incontrati di nuovo. Nell’ambìto spazio dell’Accademia di Francia a Roma (Villa Medici, fino al 20 dicembre) «i sei di San Lorenzo» (Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Giuseppe Gallo, Nunzio, Piero Pizzi Cannella, Marco Tirelli) fanno un rapido bilancio della loro esperienza artistica.
Vediamo. Eredità evidente della lezione di Toti Scialoja (romanissimo poeta-pittore, prima espressionista tonale «alla Mafai», poi passato al gusto dell’espressionismo astratto americano) le espressioni formali dei «sei» sono molto distanti l’una dall’altra, e pure hanno una comune radice espressiva. Frammentismo simbolico e variopinto in Ceccobelli, astrazione lirica in Dessì, senso dell’ideogramma in Gallo, scultura-luce in Nunzio, matericità dell’immagine in Pizzi Cannella, formalismo geometrico in Tirelli, testimoniano di un’accorta commistione estetica tra le varie tecniche di «avanguardia» che hanno segnato il corso delle arti a Roma nell’ultimo mezzo secolo: prima gli astratti di Forma Uno (Turcato, Perilli, Dorazio, Accardi, eccetera), poi gli esegeti di una scrittura-pittura (Novelli, Baruchello), poi di un espressionismo esistenziale sconfinante in arte «povera» (la non dimenticata Marisa Busanel e il fin troppo noto Jannis Kounellis) e infine i campioni della vicenda approssimativamente detta «pop» (Pascali, Ceroli, Schifano, Angeli, Festa).
Amanti della tattilità, dell’immagine confezionata, del dialogo accurato con le poetiche d’arte contemporanea, «i sei di San Lorenzo» sono anche in qualche modo parenti dei più rumorosi e fortunati protagonisti della (fu) «transavanguardia». E però la loro espressività è assai lontana dall’assordante e fredda esperienza cui si sobbarcò più o meno allegramente la generazione di chi, alla fine degli anni Settanta, decise a tavolino di «tornare alla pittura» dopo anni di terrorismo antiartistico (i vari Chia, Clemente, Cucchi eccetera). Nel caso del gruppo di San Lorenzo si avverte infatti una maggiore sensibilità per i «valori formali», come se il manufatto della pittura e della scultura meriti ben altro rispetto che l’essere ridotto a effimero episodio del «comportamento artistico».


Meno trasgressivi, più professionali e accademici, nonché vagamente nostalgici dell’«aura perduta» nell’arte visiva, i «magnifici sei» testimoniano così un significativo passaggio di generazione e di gusto, che stempera l’ansia distruttiva in una sorta di «nichilismo ben temperato», e variamente modulato: il che è sempre buon viatico per chi cerca la strada dell’arte e della poesia.

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