Prosegue con successo di pubblico alla Triennale l'esplorazione dell'arte americana postmoderna già testimoniata dalle grandi antologiche degli anni scorsi: Andy Warhol e Keith Haring e Jean-Michel Basquiat, i due esponenti della «street art» che hanno ispirato centinaia di «writers». Quello che si chiamava un tempo Palazzo dell'Arte ospita fino al 30 maggio oltre cento opere di Roy Lichtenstein, che del Postmoderno è senza dubbio padre, ispiratore, teorizzatore.
Curata come le precedenti da Gianni Mercurio in collaborazione con la Roy Lichtenstein Foundation «Roy Lichtenstein Meditations on Art» la grande antologica del pittore statunitense (1923 - 1997) ne illustra il precorso creativo partendo dai primi lavori degli anni Cinquanta (l'artista era tornato da poco dalla guerra in Europa) nei quali Lichtenstein sperimenta la sua filosofia dell' «appropriazione» reinterpretando dipinti di artisti americani e compiendo incursioni nelle opere di Klee e Picasso. Sono lavori poco noti, molti dei quali esposti per la prima volta.
Ma ecco aprirsi gli anni Sessanta con l'irrompere della Pop Art che capovolge il concetto di «creazione» da parte dell'artista (portato alle massime conseguenze dal gesto «eroico» dell'Action Painting) per presentare come propria creazione la copia di una rappresentazione già esistente. Sono le immagini della pubblicità, dei cartoons, del cinema, ma anche di famose icone dell'arte (come la riproduzione infinita della Gioconda di Andy Warhol).
Lichtenstein dipinge Paperino, Topolino, Bugs Bunny mentre si forma il suo tipico stile bidimensionale dove i brillanti colori sono ottenuti con la tecnica dei «punti Benday», i puntini colorati usati nelle stampa dei fumetti di poco prezzo per ottenere da due un terzo colore.
Era un'autentica rivoluzione. Scrive lo stesso Gianni Mercurio nel suo saggio nel catalogo Skira: «Attraverso una riduzione stilistica prima ancora che tematica, Lichtenstein ha liberato la figura dell'artista dalla sacralità e dalla retorica che facevano di lui una sorta di Creatore... In altre parole, pur mantenendo fede nelle qualità espressive dei materiali, a quel tempo Lichtenstein - come del resto Rauschenberg appena tornato dai suoi viaggi in Italia, in Francia, in Spagna - aveva già abbandonato ogni interpretazione dogmatica del valore dell'arte...»
Sono la città (la New York dove Roy è nato e vissuto), la strada, il traffico, il rumore, le luci al neon che irrompono nello studio dei pittori. Lichtenstein, Rauschenberg, Warhol, Jasper Johns, Rosenquist: i nuovi artisti degli anni Sessanta si ispirano alle insegne scintillanti dei casinò di Las Vegas, agli oggetti dell'uso domestico, alle copertine delle riviste e alle immagini pubblicitarie che rappresentano il «sogno americano».
Negli stessi anni in cui, immune da ogni contaminazione, Edward Hopper trasforma in simboli silenti e straniati le pompe di benzina e gli ingressi degli alberghi, Lichtenstein e gli altri, riuniti intorno al «faro» della galleria di Leo Castelli, propongono (ancora Gianni Mercurio) «un realismo edificato sul potere seduttivo dell'icona pubblicitaria e commerciale, sul sogno a due dimensioni di una società che vede attraverso lenti di celluloide la proiezione delle proprie ambizioni».
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