La Road map di D’Alema porta alla guerra civile

Si legge nella biografia di Chirac scritta da due giornalisti socialisti, Boltanski e Aeschimann, che il presidente francese dichiara di avere «un principio semplice in politica estera. Guardo quello che fanno gli americani e faccio il contrario». Da noi impazza lo Chirac «de noantri», Massimo D’Alema, che se ne va in giro per le capitali arabe convincendo i capi di Stato musulmani che non c’è nessuna unità dell’Occidente nella lotta al terrorismo.
Bush aumenta i soldati per eliminare quel che resta di Al Qaida e porre un argine alle violenze tra sciiti e sunniti in Irak? Da Doha, nel Qatar - che è il cuore mediatico del mondo islamico perché lì ha sede il network televisivo al Jazeera - D'Alema sentenzia che «la ricerca di una via d’uscita dalla situazione irachena non passa per un incremento della pressione militare». Naturalmente, D’Alema nega che si tratti di anti-americanismo d’accatto a uso di Diliberto e Giordano più che dell’emiro del Qatar, che è molto meno ostile agli Stati Uniti di Prodi. Infatti cita la senatrice Hillary Clinton, che ha appena detto le stesse cose ed è americana. Negli Stati Uniti, però, tutti sanno che la palla al piede della candidatura presidenziale di Hillary è che non si è mai occupata di politica estera, non se sa quasi nulla e la tratta con disprezzo. Mentre i repubblicani parlavano della prima guerra in Irak e di come consolidarne i risultati, fu lei a consigliare al marito il famoso ma sciagurato slogan: «È l’economia, stupido».
D’Alema sostiene che è necessario in Irak «disarmare le milizie» ma che «non lo convince» chi pensa di farlo «con un approccio militare». Trovandosi vicino alla sede di al Jazeera, speriamo che si sia fatto mostrare qualche bel video di milizie irachene che marciano con le teste dei loro avversari infilzate sui bastoni. Magari si può tentare di disarmarle offrendo loro fiori, o forse gli atti completi del conclave di Caserta di Prodi, sperando che si addormentino. In Italia sappiamo che D’Alema pensa di risolvere tutti i problemi con tavoli di trattative «franche e cordiali». Adesso lo sanno anche in Qatar, ma è meglio che quello che ne pensano non sia tradotto dall’arabo.
D'Alema però fa anche di peggio: dà i numeri e chiede «la nascita, entro il 2007, di uno Stato palestinese». Qui neppure Hillary Clinton la pensa come lui. Tutti sono d’accordo - a cominciare da Olmert - sull’idea che uno Stato palestinese che rispetti le condizioni della Road Map (compreso il riconoscimento di Israele e lo scioglimento delle milizie terroristiche) non solo potrebbe, ma dovrebbe nascere. Molti credenti cristiani sono anche d’accordo sull’idea che Gesù Cristo tornerà sulla Terra: ma neppure i testimoni di Geova fissano più date precise. La data del 2007 per la creazione di un vero Stato palestinese è uno slogan privo di senso. Che vinca, perda o non partecipi alle elezioni anticipate di Abu Mazen, Hamas rappresenta comunque una buona metà dei palestinesi, è armato fino ai denti e non è tra qualche mese che riconoscerà Israele e scioglierà le sue milizie, anche perché perderebbe i ricchi finanziamenti iraniani.

Uno Stato palestinese indipendente, dove Israele in caso di necessità non possa intervenire con operazioni di polizia senza causare crisi internazionali, sarebbe in preda a una guerra civile infinitamente peggiore di tutto quanto si vede in Libano. Infatti D’Alema pensa già di mandarci una «limitata forza internazionale», cioè i nostri soldati: che correrebbero rischi rispetto ai quali la missione libanese è una semplice scampagnata.

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