Rogge: «Dal 2010 Giochi vietati agli ex dopati»

Vent’anni dopo. Ma non è come scrivere una storia di moschettieri. Bisogna prender pugni. Non è facile soprattutto se gli anni sono 48, e da venti non sali sul ring. Loris Stecca era un pugile, oggi è un impiegato alla Darsena di Rimini. Sta benissimo, ma si è fatto riprendere dal virus: tornare a combattere. Sul serio e non solo nella palestra di Rimini dove incrocia i ragazzi che ci provano o quelli che si allenano solo per mostrare bicipiti gonfi. Questa è una storia che non andrebbe scritta: la dimostrazione che lo sport fa male. Non tanto perché uno prende pugni o calcia un pallone, quanto perché esemplifica che lo sport droga: non il corpo, ma la testa. Loris Stecca è stato un campione della boxe: spettacolare, picchiatore, pronto alla sfida senza mai fare un passo indietro. Meglio uno avanti. Oggi come allora racconta: «La mia bandiera è la determinazione». Una volta li chiamavano fighter, gladiatori, comunque uno di quelli: coraggio infinito e orgoglio smisurato. Poi c’era Maurizio, il fratellino, spumeggiante, farfallino sul ring che tirava colpi come una mitraglietta. Se Loris era Gattuso, Maurizio era Kakà. Entrambi romagnoli, entrambi campioni del mondo tra gli anni ottanta e novanta. Loris nei supergallo e Maurizio nei piuma.
Loris dovette mollare la boxe per un incidente capitato in strada, investito sulle strisce pedonali. Stava preparando un altro mondiale, pronto a volare a Santo Domingo contro Julio Gervacio. Aveva combattuto a Portorico contro Victor Callejas, laggiù conobbe l’inferno della boxe: quanto attraversare una selva pullulante serpenti. Perse il titolo del mondo e nella rivincita ci rimise anche la mascella. Ma la vita, quella che gli sembrava più morbida di mesi e mesi d’allenamento e di pugni, cominciò a farsi dura. Con il fratello passarono anni di silenzi, con la moglie finì l’accordo, anche se oggi Loris è risposato e si gode Enea e Rachele. Il cruccio è stato Gianluca, l’altro figlio. «Con il quale», raccontò «c’è un brutto rapporto». Era difficile spiegare la separazione dalla madre.
Stecca conviveva con il male di vivere, fors’anche quello che lo spinge di nuovo sul ring. L’eterna insoddisfazione di un impenitente orgoglioso, di uno caratterialmente segnato dal suo essere romagnolo. Ha lavorato dovunque e comunque: ha scaricato pelli di bestiame, è diventato facchino, è stato socio in una compagnia di parcheggi. Per anni si è tenuto lontano da qualunque ring. Ha frequentato raramente i palazzetti. Poi la pace con Maurizio che, nel frattempo, si è ammalato di un malanno raro, un problema di globuli rossi che lo ha portato all’80 per cento di invalidità. Oggi Maurizio è un allenatore della nazionale dilettanti di boxe. Aveva detto al fratello di lasciar perdere, stessa idea suggerita da Salvatore Cherchi, il manager che non ha voluto saperne di rispedire Loris sul ring.

Ma Loris ha deciso: a marzo ci riproverà, tesseramento da croato perché in Italia non glielo concedono. Maurizio lo allena. Sebben controvoglia. Lui dice di avere un fisico bestiale. «Risponde come quello di un ventenne». Peccato sia quello di un testardo quarantottenne.

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