Roma, è in coma la donna stuprata Prodi: "Non deve più succedere"

Donna di 47 anni aggredita alla fermata del bus mentre torna a casa. Un romeno di 24 anni senza fissa dimora, la scaraventa seminuda in un fosso e si accanisce sulla vittima. Arrestato. L'esecutivo vara un decreto d'emergenza per le espulsioni. Il premier: "Romeni, un problema non solo italiano"

Roma, è in coma la donna stuprata 
Prodi: "Non deve più succedere"

Roma - La sua vita è un cavillo, una formalità. Clinicamente morta. No, precisano i medici: «È in coma, c’è una residua attività elettrico-cerebrale». Un piccolo guizzo di vita in un corpo violato, ridotto a un fantoccio. Le hanno ricucito un occhio, contato le fratture a una a una, poi con i lividi hanno perso il conto. Giovanna Reggiani, 47 anni, moglie di un ufficiale della Marina militare di stanza alla Spezia, ora galleggia nel limbo, attaccata a un respiratore in Terapia intensiva al Sant’Andrea. Ultimo luogo a cui il destino le ha dato appuntamento. Il penultimo si chiama incubo.

Giovanna è stata seguita nell’ombra, assalita, picchiata, stuprata e trascinata in una delle tante favelas di disperati e balordi sorte e dimenticate all’ombra del Cupolone. A sceglierla come vittima un giovane romeno probabilmente ubriaco, Nicolae Romulus Moilat, 24 anni ancora da compiere. Tutto si consuma in una manciata di minuti. La donna trascorre il pomeriggio di martedì in centro a fare shopping. Poi torna a casa, in zona Nord, col trenino della ferrovia che porta a Viterbo. Poco prima delle 20,30. Giovanna scende alla fermata di Tor di Quinto, percorre il viale asfaltato che dalla stazione immette sulla via principale, in aperta campagna. Sa bene che quei pochi metri deve «bruciarli» in fretta. È buio pesto, piove, non ci sono vigilantes e dalle radure potrebbe spuntare chiunque. Quel chiunque è Nicolae, che salta fuori e l’afferra da dietro, la stringe in una morsa, la porta di peso all’interno di un accampamento di cartoni e lamiere, a duecento metri di distanza. È una belva, Nicolae.

Si accanisce sul corpo della poveretta. Giovanna prova a difendersi, si dimena come una forsennata, urla con quanto fiato ha in gola. Ma le sue parole non trovano orecchie, le sue mani non trovano nulla. Quelle del romeno invece impugnano una spranga di ferro e giù botte fino a sfondarle il cranio, a sfigurarle il viso e a zittirla per sempre. Poi, stravolto, sporco di fango e sangue, il romeno solleva il corpo inerme, se lo carica in spalla e se ne libera gettandolo in un fosso.

È una sua connazionale, una nomade, ad accorgersi della scena. Grida all’uomo di fermarsi, ma quello si dilegua. La straniera ferma l’autista di un bus, insieme chiamano i soccorsi. Poco dopo Giovanna è già sotto i ferri della sala operatoria in pronto soccorso. Le sue condizioni appaiono da subito disperate. Con sé non ha documenti, né la borsetta. Indossa un maglioncino nero tirato su fin sotto le ascelle, i pantaloni calati, non ha più gli slip, un solo stivaletto ai piedi, una catenina al collo e una fede con incisa una data e un nome al dito. All’inizio si pensa a una slava. Gli agenti del commissariato di Ponte Milvio cercano la testimone rom nel suo accampamento.

Mentre parlano con lei, da una stamberga spunta fuori il romeno. La donna urla: «È lui!». Moilat viene portato in commissariato. Non parla. Nessuno al campo dice di conoscerlo. Intanto, sul posto piombano gli uomini della Scientifica. Nella baracca degli orrori c’è la borsa di Giovanna, dentro ancora gli scontrini delle spese fatte. La Procura della Capitale convalida il fermo per omicidio volontario di Moilat.

Giovanna resta lì, bagnata dall’acqua di Lourdes che i vicini le hanno portato. Ma nemmeno loro credono a un miracolo.
E intanto si ricomincia: in serata un’altra donna è stata aggredita e rapinata in un sottopassaggio a Centocelle. Dopo le botte, è stata ricoverata in stato di choc.

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