ROMA IMPERIALE Una patria modello

La conquista dell’Italia e degli altri territori creò un’unità non solo politica e amministrativa, ma pure culturale e morale. Un’integrazione perfetta che ebbe anche imperatori «immigrati»

da Cividale del Friuli
Patria diversis gentibus una? Unità politica e identità etniche nell’Italia antica: è questo il titolo del convegno, tratto da un celebre verso del poeta Rutilio Namaziano, che si è concluso sabato scorso a Cividale del Friuli (vedi box), a cui hanno partecipato illustri studiosi provenienti da tutto il mondo. Nel corso del convegno si è parlato dell’incontro e dell’integrazione tra i popoli nell’Europa antica, in particolare in Italia, e della romanizzazione dei popoli europei.
Un tema che s’inserisce a pieno titolo in un dibattito europeo che sempre di più ruota, ossessivo, intorno a parole chiave come identità, appartenenza, radici giudaico-cristiane, globalizzazione, internazionalismo, cosmopolitismo, multi(inter)culturalismo, sincretismo etnico, localismo, federalismo e così via. Ecco allora che ci viene in soccorso l’Impero Romano, mosaico di popoli e culture, uno tra i modelli capaci, nella storia dell'umanità, di assimilare, integrare e imporre un’unità di «genti diverse» in un’unica patria, e addirittura di valorizzare le proprie etnie mediante un concetto di concordia civile, ideale, morale e non solamente politica e amministrativa.
Abbiamo rivolto qualche domanda a due studiosi, la professoressa Marta Sordi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, di cui ora è Professore Emerito, e il professor Giovanni Brizzi, ordinario di Storia Romana all’Università di Bologna.
Professoressa Sordi, come avveniva il processo di assimilazione delle diverse etnie nell’antica Roma?
«La questione della romanizzazione dell’Italia si inserisce bene nel problema dell’integrazione delle singole etnie nel mondo greco romano. L’Italia era al centro dell’Impero, sia perché rappresentava essa stessa, per le molteplici etnie che l’abitavano, diverse per lingua, costumi, origine - pensiamo per esempio agli etruschi, ai greci, agli osci, ai celti e ai veneti - un’accolita di identità e di alterità da integrare. Roma era capace di assimilare proprio grazie alla sua fortissima identità».
A proposito degli etruschi...
«Si trattava dell’unica popolazione consapevole della propria diversità e nello stesso tempo del proprio inserimento nella tradizione vetero-romana, che ha affrontato apertamente la necessità di un’integrazione, partendo proprio dalla sua tradizione religiosa. Fu l’unica popolazione che, rinunciando alla propria lingua, tradusse tempestivamente in latino i propri libri sacri per assicurare la sopravvivenza all’Etrusca disciplina che, divenuta ormai religio publica del popolo romano, rappresentava il lascito più importante dell’eredità etrusca, e che giunse pienamente vitale fino al tardo antico. Altrettanto importante è il comportamento magno-greco dell’Italia meridionale, la cui filosofia, il Pitagorismo, era stata la prima esperienza filosofica dell’Italia antica e che, pur nella fedeltà a Roma, conservò la propria lingua e le proprie istituzioni teatrali e ludiche almeno fino al terzo secolo dopo Cristo. Purtroppo, su questo punto, è mancato il contributo fondamentale sui sanniti».
Professor Brizzi, era dunque tutto così idilliaco? Possiamo identificare l’Impero Romano come un esempio vincente d’integrazione dei popoli?
«Abbastanza. È un’assimilazione che si estende gradualmente ed è talmente perfetta che promuove imperatori che provengono da quasi tutte le parti dell’Impero. Le classi dirigenti del mondo antico - etrusche, sannitiche, galliche o orientali - tendono ad accettare la proposta che viene da Roma centralizzata di diventare consortes imperii. Parliamo così di un’assimilazione che si preoccupa soprattutto delle classi dirigenti e questo crea una coesione di interessi e di obbiettivi comuni che discendono in tutti gli aspetti della società civile. La struttura politica del mondo antico è tendenzialmente aristocratica. La democrazia, in sostanza, è un incidente».
Roma avrebbe saputo integrare anche i musulmani?
«Difficile, come, in genere, avviene per i monoteismi».
A proposito di imperatori provenienti da quasi tutte le parti dell'Impero: oggi in Francia abbiamo un ministro della Giustizia donna e maghrebina; in Usa abbiamo un Obama for President. In Italia?
«Attualmente nel nostro Paese c’è una crisi politica evidente, non penso che da noi la candidatura di un cittadino di origine straniera sia tra le evenienze immediate. Detto questo sarebbe un punto di arrivo e - premessa l’integrazione necessaria - persino auspicabile. Ci sono poi delle abilità che esulano dal sesso e dall’etnia, è evidente. Pensiamo appunto all’Impero Romano che era davvero sovranazionale. Alcuni obbiettivi, come sarebbe oggi l’elezione di un nero, li aveva raggiunti. Le donne erano escluse dai giochi politici, anche se alcune di loro esercitavano parzialmente il potere dietro le quinte».
L’Europa e l’Italia, saranno capaci di integrare i «loro» stranieri?
«La risposta è complessa, ci vorrà di sicuro molto tempo. Da un lato abbiamo flussi migratori sempre più massicci, dall’altro un mondo globalizzato su base economica e non politica. Contemporaneamente esiste la tendenza a identificarsi nei microcosmi, nelle piccole realtà quasi di “quartiere”.

Non sono un profeta, ma non stiamo attraversando un bel momento: lo definirei quasi di basso impero. La cosa più evidente è la polverizzazione della nostra cultura; una cultura in pillole, liofilizzata, che non promette nulla di buono».

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