La memoria è un investimento rischioso. Lo spread tra passato e futuro è talmente largo che il presente può annegarci come un topo nel fango. Soprattutto se il passato porta le cicatrici del nazi-comunismo, se il futuro è nel grembo del Dio mercato e se il presente si dibatte in un neo-medioevo che definire post-moderno sarebbe un eufemismo. Jáchym Topol, classe 1962, che a 16 anni fu tra i firmatari di «Charta 77», la più eclatante forma di dissenso precedente il crollo del Muro di Berlino e di tutti gli altri muri immateriali eretti per separare il retrogrado progresso comunista dal futuribile regresso capitalista, lo sa benissimo. Ne diede buona prova in Artisti e animali del circo socialista (Einaudi, 2011), dove presentava una compagnia di giro fra nostalgia e disincanto. E ora ne fornisce ulteriore conferma con Lofficina del diavolo (Zandonai, pagg. 168, euro 14,50, traduzione di Letizia Kostner). Qui, attingendo allesperienza personale e alla personale rabbia, repressa ma non più di tanto, se la prende con la mercificazione del dolore storicizzato, con la retorica del genocidio, con la pietas un tanto al chilo spiattellata dallOccidente come zucchero a velo sulle rovine di un Oriente limitrofo eppure lontanissimo.
Lio narrante tuffatosi nelle acque putride dellOfficina del diavolo, narrazione che sa un po di Gorky Park e di Il Maestro e Margherita, di Le vite degli altri e dei Demoni dostoevskijani, di grand guignol e di romanzo on the road è, ovviamente, un alter ego dello stesso Topol somigliantissimo alloriginale. E i teatri della sua picaresca disavventura sono tre. Si parte da Terezín, la cittadina a nord di Praga che prende nobilmente il nome da Maria Teresa dAustria e ignobilmente la fama dai campi di concentramento della prima e della seconda guerra mondiale che ospitarono i deportati dalla Russia e poi quelli ammassati a uso e consumo dei nazisti e dei loro nemici-colleghi, i compagni sovietici. Memore della propria infanzia e giovinezza (condita dallomicidio preterintenzionale del padre, militare ottuso in quanto fedele alla linea...), il Nostro simbarca in unimpresa assurda: fare delle mura diroccate dove porta a pascolare le capre un museo degli orrori totalitaristi. Una volta rasa al suolo, dalle solite autorità costituite, la comune nascente su quel che restava dei «pancacci», le sedie di contenzione delle vittime, e archiviate le magliette con la faccia di Kafka e relativo slogan: «Se fosse sopravvissuto alla propria morte sarebbe stato ucciso qui», lazione passa in Bielorussia.
Minsk, vista con occhi da boemo, è una Venezia senzacqua, unaraba fenice risorta sulla spina dorsale di viali luminosi e palazzoni inquietanti. Lì leroe anti-eroe, custodendo una chiavetta Usb che chiama «il Ragnetto» e che contiene chissà quali segreti da proiettare sullo schermo del mondo civilizzato, si lascia prendere da una nuova sfida, ovvero da una nuova sfiga. Cè da promuovere un «prodotto» di qualità ma assai poco pubblicizzato. È laltra Katyn, che infatti si scrive Chatyn. «Guarda i polacchi - urla Alex, piccolo Virgilio locale che guida il Narratore fino a una sorta di museo delle cere parlanti -, la loro Katyn! Quelli sono di nuovo avanti! Ci gireranno un film, su Katyn! E la nostra Chatyn, invece? Non la conosce nessuno». Il mercato occidentale sicuramente accoglierà con favore ledificazione di un nuovo Jurassic Park dellorrore...
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