Da Saba a Obama quelle pagine di storia nate fra birre e caffè

Spesso i tavolini di pub e bistrot sono meglio delle scrivanie per ispirare discorsi e romanzi

Jon Favreau, ventisettenne, jeans e t-short da eterno universitario, è uno speechwriter. Anzi, «lo» speechwriter: il suo committente è Barack Obama. Per lui ha lavorato ai testi della sfida, della vittoria e, in questi giorni, alla storica orazione d’insediamento, che sarà pronunciata nella cerimonia del 20 gennaio.

Speechwriter: un creativo che mette in bella gli interventi pubblici per i politici, troppo indaffarati per misurarsi con foglio bianco e sintassi. Sembra una parola ultramoderna, scienze della comunicazione, indici di gradimento, «bucare il video». Invece è il ricalco di logògrafo (dal greco logos, «discorso», e grafo, «scrivo»), colui che per mestiere (anzi, per techne, «arte», perché di questo si tratta) nell’Atene classica scriveva discorsi destinati ad altri: poveracci che dovevano discolparsi davanti a una giuria di tribunale (non c’era l’avvocato patrocinatore, a quei tempi), o potenti che dovevano fare figura nelle occasioni ufficiali. Il maestro era Lisia. Sua specialità, oltre alla parola duttile, la psicologia: pennellare il discorso sul «carattere» del cliente come un abito sartoriale.

È anche il talento di Favreau: gli bastano pochi minuti al telefono con Obama, per intercettarne al volo le intenzioni, la volontà di messaggio. Il resto è fatica dura, professionale, sulla tastiera del labtop, qualche videogame per sfogare adrenalina ogni tanto, musica rock a palla, tripli caffè espresso ai tavolini di «Starbuck» (o di altri locali, più anonimi). Questo suo lavorare tra andirivieni di camerieri e avventori fa di lui il tassello di una tradizione che intreccia cultura e moda, genio d’arte e ambiente sociale.

Il caffè «letterario» è un pregiato articolo europeo. Fiorì con l’Illuminismo. Fucina di incontri, incunabolo di gazzette e giornali, era il crogiolo giusto, secondo Montesquieu, per buttar lì, fra una tazzina fumante e l’altra, discorsi che creavano la realtà, piani giganteschi, congiure e sogni anarchici. Tutto senza lasciare la propria sedia. Prima della Rivoluzione, Parigi contava 800 locali. Nel più antico, il «Café Procope», Quartiere Latino, Jean le Rond d’Alembert e Denis Diderot, abbozzarono nel 1727 il disegno dell’Encyclopédie, inaugurando uno dei più giganteschi lavori di squadra dell’epoca moderna.

Ma il secolo del bar, aggiornato scriptorium individuale, resta il ’900. Lo scrittore è lì, con se stesso. Il più delle volte, agli esordi, povero in canna, alla ricerca di un’arca accogliente e (quasi) gratuita. Claudio Magris, in I luoghi del disincanto, coglie il senso della situazione: «Il caffè è l’unico luogo in cui si può veramente scrivere: si è soli, con carta e penna e tutt’al più i due o tre libri di cui si ha bisogno in quel momento. Abbandonati a se stessi e costretti a far conto soltanto su se stessi, a raccogliere le proprie energie e dosarle con misura; il tavolino su cui si poggia il foglio diviene la tavola di un naufrago, cui ci si aggrappa, mentre la familiare armonia che ci circonda si svuota, diviene l’incerta cavità del mondo, nel quale la scrittura si addentra, perplessa e ostinata».

Non sappiamo se il comunicatore di Obama abbia di queste intimistiche intuizioni. Il suo problema sono i ritmi forsennati della politica, la grinta delle idee, in frasi scultoree e insieme dolci. Niente di meglio di una postazione in cui basta schioccare le dita, e farsene portare un altro dal cameriere. «Il caffè fa bene. C’è la caffeina. La caffeina mette l’uomo a cavallo». La frase - Favreau la sottoscriverebbe subito - è di un intenditore, Ernest Hemingway, che in Fiesta la mette sulle labbra di Bill, l’amico ironico, che striglia l’americano Jake Barnes (depresso alter ego dell’autore) per la sua pretesa di essere un romanziere, mentre non è che un cronista in disarmo nella Parigi tra le due guerre. Caffeina, magari con qualcosa di più forte, gin, pernod o la sua verdastra imitazione, l’assenzio, per carburare quel paio di idee al tavolino del bar.

È un indizio del perché quel ragazzo di Oak Park, Chicago, dal languido sguardo di pantera assonnata, come lo fotografò il poeta Archibald MacLeish, usciva ogni mattina dalla sua soffitta, al 113 di Rue Notre Dame de Champs, Montparnasse, per rifugiarsi alla «Closerie des Lilas», lampade rosse, bancone cubano di mogano, sedili in pelle, e saltare in sella ai nervosi bozzetti di in out time, punto di svolta nella prosa del secolo. Ma c’era dell’altro. Una moglie e un figlioletto a carico nell’angusta dimora, compagnia scomoda per uno scrittore. E una segheria che fastidiosamente ronfava al piano terra. «Io potevo sempre scrivere al caffè - ricorda Hemingway in Festa mobile - e lavorare tutta la mattina davanti a un café crème, mentre i camerieri pulivano e spazzavano il locale, ed esso si scaldava poco a poco...»: pessimo avventore, ufficio privato, luce e riscaldamento al costo di una tazzina.

Era il motivo per cui Paul Boubal, proprietario del «Café de Flore», St. Germaine des Prés, incurante che il suo locale fosse la culla dell’esistenzialismo, screditava come «il peggiore dei miei clienti» Jean Paul Sartre, giornate intere a riempire quaderni, a tenere corte con i suoi, senza mai ordinare più di una volta.

A Jon Favreau piacerebbe la bica, il caffè bomba che si serve ancora allo storico «A Brasileira», Rua Garret, al Chiado, Lisbona. Qui veniva ad ispirarsi il poeta Ferdinando Pessoa. La sua statua di bronzo, al leggendario tavolino esagonale, sembra ancora attendere gli esoterismi onirici, propiziati dalla scura bevanda. Al caffè «Tergeste», tra baldracche e ladri, con la buona cosa dell’italo e dello slavo messi d’accordo dal biliardo, Umberto Saba scriveva i suoi più allegri canti. Poi ci sono gli artisti con la matita fumante, gente per cui il motto nulla dies sine linea, «neppure un giorno senza scrivere» è un imperativo categorico, da praticare anche in bar e trattorie. Renzo Piano ha registrato sui tovaglioli le sue visioni di architetture stratosferiche che non sfidano il cielo, ma si inchinano ad esso. Pablo Picasso disegnava al caffè «Lapin Agil» di Parigi.

Seduto al suo tavolino, in queste ore, Jon Favreau rinfocola la moda del caffè

laboratorio, limando un discorso da quindici, densi minuti. Tema: «L’America è nata sulla base di certi ideali, che è giunto il momento di recuperare». Niente male, per una prova d’ingresso al quadriennio di potere planetario.

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