Salman Rushdie ha perduto il suo paradiso

In «Shalimar the Clown» il rimpianto di un Kashmir pacifico e multietnico

da Londra
Ricorre spesso nei libri di Salman Rushdie il tema dell’idillio infranto, della bellezza perduta, del paradiso che diventa un inferno - vent’anni fa il suo primo romanzo I figli della mezzanotte raccontava il doloroso passaggio dal sogno di un’India pacifica e unita all’incubo della cruenta separazione fra indù e musulmani, mentre L’ultimo sospiro del Moro celebrava piangendola la radiosa civiltà moresca dell’Andalusia. Ora il suo nuovo romanzo, tanto atteso quanto controverso, lamenta il destino del Kashmir, la perdita della kashmiriyat, una cultura armoniosa di comunità diverse fiorita in un paesaggio di laghi scintillanti e vette nevose dove i Moghul disegnarono forse i più splendidi dei loro giardini. Una cultura oggi annientata dalle tensioni fra India e Pakistan. Shalimar the Clown (Edizioni Jonathan Cape, Londra), è un libro complesso, a molte voci e più livelli, comico e disperato, «una tragedia», ha detto lo stesso autore, un romanzo arrabbiato e inquietante che attraverso il microcosmo di un amore tradito che esige vendetta affronta molti interrogativi contemporanei, geopolitici, filosofici e teologici, facendo più luce su un disastro globale.
Shalimar è dunque il romanzo di Rushdie più impegnato e più impegnativo, dal suo brillante esordio mai più interamente ricalcato, in cui esamina sul filo della fiaba e del realismo politico il trauma che vive il mondo dopo l’11 settembre e le guerre che sono seguite. Ma non è propriamente un libro politico, ha spiegato Rushdie, è solo un libro che sottolinea «l’inesorabile incrociarsi della vita privata con gli affari pubblici, come il nostro destino dipenda sempre meno dal nostro carattere e sempre di più invece da forze che non possiamo controllare». Come dice la voce narrante, «ora ogni luogo era diventato parte di ogni altro luogo, e le nostre vite, le nostre storie, erano scivolate l’una nell’altra».
Lirismo, veemenza verbale, realismo magico, nel romanzo c’è tutto Rushdie, ma questa volta, più di altre volte, la sua narrativa ha suscitato molte critiche, la sua trattazione del tema molte polemiche. Nelle librerie inglesi da poche settimane, il libro non compare nelle liste dei bestseller ed è stato clamorosamente escluso dalla corsa per il «Man Booker Prize», il più prestigioso premio letterario britannico. Troppo denso, dicono i critici, spazia dal privato alla politica, dalla storia alla musica rock, è un colosso che spesso perde l’equilibrio, «un romanzo che soffre di iperattività verbale», ha scritto John Updike.
Era tuttavia un libro che tutti attendevano, un romanzo che raccontando la storia del Kashmir prendesse di petto il tema del fondamentalismo islamico e le origini del terrorismo globale, analizzasse il rancore nutrito dell’avidità delle grandi potenze in molte aree del globo, e soprattutto fosse un tentativo di penetrare la mente del terrorista e capire con lo strumento dell’immaginazione i meccanismi della violenza suicida. Invece lo scrittore ha preso tutti in contropiede, il romanzo è una satira piena di clichés che confonde l’umorismo con il sarcasmo, recita la voce del coro, una storia d’amore e di vendetta vecchia maniera. Rushdie sarebbe caduto nell’illusione del romanzo globale, inciampando nella rete della sua stessa donchisciottesca ricerca di un nuovo ibrido letterario, demolendo l’idea di romanzo per compiacere le masse moderne che vogliono spettacolo. Tutto questo è un po’ vero, Shalimar the Clown oscilla fra Hollywood e Bollywood, un po’ film d’azione e un po’ film sentimentale, alcuni passaggi sono giornalistici, ma lo scavo nel problema è profondo, e il lirismo con cui idealizza il paradiso è convincente quanto la veemenza con cui lacera l’inferno.
La storia di Shalimar, artista diventato terrorista, comincia dalla fine, con l’assassinio a Los Angeles di un diplomatico americano, ex ambasciatore in Afghanistan e India. L’impianto del romanzo è un incastro di flashback, in Kashmir dove Shalimar, musulmano, ama e sposa Boony, una superba danzatrice indù, in Europa dove l’americano di origine ebraica ha avuto un passato nella Resistenza a Strasburgo, in California dove è cresciuta e vive India, la figlia illegittima del diplomatico e di Boony, l’adultera ripudiata e infine decapitata. Le pagine più incisive riguardano i villaggi del Kashmir, dove si assiste al mutare di un mondo e alla trasformazione di Shalimar in facile preda dei «mullah di ferro» e della loro rete di reclutamento terroristico. Dopo vent’anni Shalimar si vendicherà del tradimento della moglie, ma India cambierà il suo nome in Kashmira e si vendicherà a sua volta. La parabola è un avvertimento, per i musulmani e per il pluralismo laico.
Il linguaggio naturale di Salman Rushdie è l’iperbole, ha tante storie da raccontare, la sua immaginazione è troppo viva, il romanzo è come un fiume in piena, travolgente e spesso senza controllo, tuttavia a muovere Shalimar the Clown non è tanto il gusto per l’esagerazione comica o la satira, quanto la tristezza per l’ideale che si è perduto in Kashmir e in tante altre parti del mondo, musulmano e non, l’ideale della tolleranza e del pluralismo.

E a dispetto del pessimismo della ragione, il libro finisce su una nota di speranza e di riconciliazione. Guardando a un futuro forse non troppo lontano, quando «i termini musulmano e indù ritorneranno ad essere “descrizioni” e non più “divisioni”».

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