Sambonet, come ti apparecchio l’arte quotidiana

da Torino
«Mentre io mi sforzo di spiegare lui fa scarabocchi» scrisse ai genitori di Roberto Sambonet un suo professore. Era una nota disciplinare, ma anche un perfetto giudizio critico, perché questa naturale attitudine sarà per Sambonet una scelta di vita: il disegno come strumento della memoria.
La grande mostra che ora lo ricorda a palazzo Madama («Roberto Sambonet. Designer, grafico, artista») racconta proprio questo: cultura visiva che interviene sulla realtà, curiosità insaziabile sinonimo di ricerca grafica, progettuale, antropologica. L’esposizione torinese è una cornucopia che a ogni sala rivela tesori talmente sedimentati nella nostra memoria da aver dimenticato il nome di chi li progettò: piatti, bicchieri, centro-tavola, vasi, posacenere, servizi di posate, batterie da cucina. Forme rigorose, funzionalità sfrenata, il design che non si piega all’oggetto, ma lo reinventa e lo impone. E, rivoluzionaria per l’epoca - gli anni del boom - l’idea del packaging come forma d’arte, che gli varrà, vent’anni dopo, il suo secondo Compasso d’Oro.
Nato a Vercelli, Roberto Sambonet (1924-1995) era figlio di industriali da parte di padre, di artisti in senso lato, da parte materna... Anche questo spiega una complessa formazione giovanile che lo vede dapprima iscriversi ad architettura, in seguito dedicarsi alla pittura, più tardi scegliere la strada dell’antropologia. La data di svolta è il 1948, quando questo giovane ventiquattrenne che ha già un nome nella Milano dei Cassinari, dei Morlotti e dei Treccani, se ne va in Brasile. È il Brasile dell’architetto Gina Bo e del Museo d’Arte di San Paolo, ma anche della foresta Massaguassù e dei villaggi di di pescatori. Sono gli anni in cui Sambonet si fa assistente regista per il film Magia verde, organizza le prime sfilate di moda brasiliana al Masp, insegna grafica, impara la stampa dei tessuti...
A metà degli anni Cinquanta è di nuovo in Italia, ma la sua è un’Italia che conosce il mondo. È diventato amico di Alvar Aalto e quindi è di casa in Finlandia, ha comprato una barca a vela, la Daphne, e quindi è di casa in tutto il Mediterraneo... Non è un caso che la Rinascente pensi a lui per le grandi manifestazioni internazionali. Non è solo una grande magazzino la Rinascente di quegli anni, è un luogo promotore di cultura: ci lavorano Bruno Munari e Giò Ponti, Albe Steiner e Max Huber. Sambonet va in Giappone, in India, in Messico, in Sud America, in Russia...Ogni ritorno coincide con quelle mostre-mercato nelle quali i clienti-visitatori prendono d’assalto l’esotico di un mondo che non ha ancora conosciuto la globalizzazione.
Il visitatore che ha più di cinquant’anni rivede nelle sale di Palazzo Madama i cartelloni, i poster, la pubblicità, gli oggetti che hanno contrassegnato la sua infanzia e la sua adolescenza: i colori Max Meyer della Tintal con il cane dalmata, le confezioni Pirelli, la Rosa camuna logo della Regione Lombardia, i bozzetti per la Metropolitana...


Artista a tutto tondo, Sambonet coniuga il design alla pittura, ma è forse nel ritratto che Sambonet spinge più a fondo la sua ricerca sul perché ultimo, sull’essenza: Ettore Sottsass, Franco Albini, Lucio Fontana, Raffaele Carrieri sono colti nella loro psicologia più che nel loro fisico. Era un curioso anche dell’animo umano, Roberto Sambonet...

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